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lunedì 25 maggio 2009

Cannes o la sala della tortura


E non è stata casuale questa mia rievocazione dell'opera prima di Bellocchio, ma in occasione della presentazione del suo ultimo film a Cannes, mi sembrava doveroso sottolineare l'inizio della carriera registica di questo grande autore italiano, l'unico presente a Cannes. Stupisce la notizia del mancato successo di "Vincere", come sottolineato dallo stesso autore nelle primissime dichiarazioni: ci si aspettava qualche riconoscimento vista l'entusiastica accoglienza di critica e pubblico.

Ma questo (come è stato detto) è stato il festival delle torture, il festival dei film-tortura, quelli che gli spettatori li massacrano e poi li fanno fuggire fuori dalle sale. Sembra che quest'anno la giuria abbia deciso di "non fare nessuna concessione al pubblico" direbbe Debord, e di promuovere la linea meno praticata e meno digeribile del cinema, quella che, checchè se ne dica, a respirarla, ci pulisce l'anima, ci purifica dalla mole di immagini digerite, dei valium narrativi, ci sconvolge, ci traumatizza, e ci porta sul serio sull'orbita del potenziale straordinario del cinematografo.

I premi:

PALMA D'ORO
"Il nastro bianco" di Michael Haneke
Austria.
GRAND PRIX
"Un profeta" di Jacques Audiard
Francia.
PREMIO SPECIALE
Alain Resnais
REGIA
Brillante Mendoza per "Kinatay"
SCENEGGIATURA
Feng Mei per "Spring Fever" di Lou Ye
ATTORE
Christofer Waltz per "Inglourious Basterd" di Quentin Tarantino
ATTRICE
Charlotte Gainsbourg per "Antichrist" di Lars Von Trier
PREMIO DELLA GIURIA (ex aequo)
-"Fish Tank" di Andrea Arnold
-"Thirst" di Park Chan Wook
CAMERA D'ORO PER LA MIGLIORE OPERA PRIMA
"Samson and Dalilah" di Warwick Thornton
MENZIONE SPECIALE PER LA CAMERA D'ORO
"Ajami" di Joao Salaviza

mercoledì 20 maggio 2009

MIRACOLO A MILANO



1951 di: Vittorio De Sica.
"C'era una volta...." il Neorealismo e c'è chi, come me, ancora si stupisce delle perle che portò a galla. A distanza di poche ore ho rivisto due delle più brillanti tra queste perle, Paisà e Miracolo a Milano
appunto, che in realtà trasborda dal Neorealismo vero e proprio, laddove Paisà ne rappresenta invece l'essenza/didascalia. L'uscita del film nel 1951 è contemporanea a quella di Francesco giullare di Dio (presentato a Venezia nel 1950), infatti entrambe le pellicole possono essere considerate come prove generali dell'uscita dal rigoroso neorealismo dei rispettivi autori, ormai giunti all'esaurimento del'ispirazione poetica e storica derivante dal clima che aveva alimentato il neorealismo stesso. Ambedue aprono a suggestioni nuove, contaminando la rappresentazione severa e integrale della realtà con condimenti favolistici e mistici, non tradendo tuttavia il patto con la società e con la storia. I soggetti sono ancora tratti dalla vita, nel caso di Miracolo a Milano (la condizione di senzatetto, orfani ed emarginati) e dalla storia, nel caso di Francesco, che trova già ispirazione per la vocazione didattica che sarà peculiare soprattutto della fase matura di Rossellini. Pur rimanendo nell'orbita del neorealismo, estetica e ideologica, le due pellicole aprono una nuova fase del cinema (e della storia): il tempo della ricostruzione della speranza e della memoria. Oserei dire che esiste un filo ideologico che lega queste due pellicole: la riscoperta e la rivalutazione del misticismo originario del cattolicesimo come valori da riconsiderare dopo le bassezze superomiste, violente, razziste, dei fascismi dei decenni precedenti; tanto Francesco (il quasi eretico) quanto Totò possono essere considerati come riletture della figura di Cristo.
Siamo a Milano, l'anziana signora Lelotta rinviene un neonato, Totò, abbandonato nell'orto di cavoli. Con un salto nel futuro vediamo una parentesi di Totò ragazzino, e della quotidianità vissuta nella casa di Lelotta, l'educazione ricevuta, a suon di favole e minestre. Rimasto orfano per la seconda volta Totò allogia in un orfanotrofio fino alla maggiore età.
Totò è un uomo quando ritorna per la strada, nuovamente orfano, di nuovo solo, ma accompagnato dal consueto ottimismo, da una bonaria fiducia nella vita, che non si arresta di fronte alle immediate difficoltà che incontra: la diffidenza, il cinismo, la povertà. Un uomo riesce a sottrargli la borsa, ma Totò lo segue finendo per patteggiare: la borsa in cambio di un posto letto, di una casa, ma di cartoni. Così inizia l'avventura di Totò fondatore di una nuova città, separata dalla vita reale (o più reale del reale) ed osteggiata dal nuovo acquirente del terreno su cui la città è sorta. Totò gestisce le difficoltà con fantasia e saggezza, e quando necessario ricorre al soprannaturale; Lelotta gli dona una colomba bianca, una lanterna magica capace di esaudire qualsiesi desiderio: così iniziano a materializzarsi i sogni più scontati o più bizzarri di chi no ha mai avuto niente, vestiti da imperatrice, armadi, e vettovaglie da un lato, il tentativo di superare la diversità, cambiare il colore della pelle, o dare vita alla statua simbolo della città.
La povertà viene analizzata con un approccio surreale e grottesco, gli eventi sono gestiti apparentemente al di fuori delle logiche idealistiche o politiche; è l'umanesimo dominante coperto di accenti favolistici e meravigliosi che rende l'impronta di Zavattini molto incisiva sulla struttura generale. Il motivo/ossessione "ci basta una capanna per vivere e dormir" esaurisce ogni possibilità di fraintendimento: non ci sono rivendicazioni, non c'è una reale denuncia nei confronti della povertà, ma c'è un certo compiacimento per la semplicità e l'ingenuità di questo mondo rovesciato in cui l'unico intervento, l'unica salvezza risiede nel sovrannaturale.
Il film non a caso fu proibito in Unione Sovietica e non piacque in Italia, tanto ai conservatori quanto ai comunisti: una bellissima favola che non lascia spazio alla politica, a meno che non la si voglia forzare in una lettura fortemente simbolica; si potrebbe allora riconoscere nel film una visione, un sogno degli autori, che raccogliendo la società orfana di se stessa, la spingono con l'utilizzo di una forza rivoluzionaria, non violenta, a ricostuirsi sulla base di valori ancora oggi incomprensibili all'umana specie.

martedì 19 maggio 2009

I PUGNI IN TASCA | BELLOCCHIO


1965
di: Marco Bellocchio.


Villa borghese nella campagna piacentina, quattro fratelli, Alberto, Ale, Giulia e Leone vivono con la madre cieca, i loro rapporti sono intricati, conflittuali e morbosi, appesantiti dalle "malattie" che presiedono le loro esistenze: cecità. epilessia, nevrosi, apatia, narcisismo, infantilismo. Escono solo per andare al cimitero, e ogni volta il viaggio ha una connotazione macabra, uno scopo funereo potenziale o tattile.
Alberto, il "capofamiglia", sembra essere l'unico "normale", esce, ha una ragazza, sogna il matrimonio, un appartamento in città. Scopriamo che Ale ha delle ambizioni, una volontà di emanciparsi: ha un progetto imprenditoriale, desidera imparare a guidare, e uccidere il resto della famiglia. Opta per l'assassinio della madre soltanto. Il matricidio diventa un vero e proprio punto di svolta, compiendo l'atto sacrificale supremo acquista consapevolezza di sè e guadagna il rispetto di tutta la famiglia, con Giulia si lega in modo più intimo, vagamente erotico, Alberto inizia a trattarlo con rispetto, gli permette di uscire con i suoi amici, lo porta con sè ad una festa. Tuttavia la sua emancipazione rimane frustrata, egli non riesce a sentirsi "normale", questo psyco sessantottino ante litteram compie un nuovo sacrificio, uccide l'indifeso fratello Leone. Dal "matricidio propizio" al "fratricidio funesto". La sua parabola è in discesa, in caduta, muore ed è lasciato morire.
Che cos'è l'individuo, secondo quali meccanismi esso si "inquadra", si schematizza, cerca un'appartenenza nella coppia, nella famiglia, nella società, come, quando (se) questi equilibri sono saltati definitivamente?

Simboli, personaggi, ambienti, parole, dialoghi, sguardi, miriadi di motivi avanzano la necessità di essere interpretetati, bussano alla porta "in cerca d'autore": mai un'opera prima ha stupito tanto; raramente un'opera ha racchiuso in sè il proprio senso storico senza mai sfiorarlo: i rapporti "sanguigni" e "sanguinari", gli ambienti claustrofobici e labirintici, l'individuo nevrotico e epilettico, l'incomunicabilità (la madre cieca) e l'omicidio tra passato e presente, tra cultura e "rivoluzione culturale", il sogno borghese e l'aspirazione a cogliere la sfida della "normalità" seppur nella mediocrità; tutto questo nel macrocosmo individuale/microcosmo sociale: la famiglia.
Tutto questo in un'opera simbolicamente barocca, ma esteticamente minimalista e sobria, condita di suoni provenienti dall'eterna e infinita mano di Ennio Morricone.
Si ritiene a torto o a ragione che "I pugni in tasca" sia un sogno premonitore del movimento del '68, un'anteprima su una rivoluzione non nel suo aspetto politico, ma nel suo aspetto ambientale: l'individuo che scalcia nell'utero claustrofobico delle proprie certezze, aprendo varchi di luce sì, ma inquietanti.

martedì 12 maggio 2009

Bronte: viva la libertà, abbasso i cappelli!



Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato.di: Florestano Vancini. Italia, 1971.

Approfitto di questo spazio per una riflessione su quest'opera e sul suo autore, Florestano Vancini, da poco scomparso, sconosciuti al grande pubblico e poco valorizzati anche in ambito critico.
Il film trae ispirazione da una novella di Verga "Libertà" (in: Novelle rusticane, 1883) a sua volta ispirata ad un episodio realmente accaduto durante il Risorgimento, e taciuto dalla storiografia: il massacro di cinque persone ordinato dal generale Nino Bixio, in seguito ad un processo sommario in cui gli imputati furono accusati delle morti di alcuni abitanti di Bronte, appartenenti alla categoria sociale dei cosiddetti "cappelli", classe di proprietari legati ai Borboni, in realtà uccisi durante una sommossa popolare, generata dall'entusiamo galoppante sull'onda dell'imminente arrivo di Garibaldi.
Le tappe, gli episodi narrati nel film, hanno alle spalle un vero e proprio lavoro di ricerca storica, con la raccolta di fonti e documenti processuali attraverso i quali Vancini ricostruisce un episodio taciuto della storia del Risorgimento, attuando un'operazione contro-storica, mettendo cioè in discussione la storiagrafia ufficiale; infatti il regista-storico fu accusato di spirito antinazionalistico. Il film aveva alla base l'intenzione di rappresentare l'episodio storico all'insegna dell'hic et nunc, in modo che lo spettatore avesse l'impressione di trovarsi al centro della vicenda, ottenendo una rappresentazione per immagini di tipo letterale: per certi versi la qualità estetica del film è disarmante, elementare, spontanea, e fa da supporto alla narrazione del "vero" integrale (non è un caso che il riferimento letterario sia Verga): il processo ke sfocia nella condanna alla fucilazione dei responsabili della strage avvenuta durante la rivolta, è una rappresentazione letterale degli atti del processo stesso. Raramente il cinema è stato usato con una vocazione a tal punto storica. La reviviscenza della poetica verista (praticata soltanto in due momenti della storia del cinema, il primo definibile come filone verista di origine napoletana, con Assunta Spina e Sperduti nel buio, il secondo con il neorealismo e le proiezioni documentarie degli anni 50 e 60. Vancini però va oltre e si delinea come storico, ovvero come cineasta che si sostituisce allo storico, in cui è l'opera cinematografica a fare da fonte, con il conseguente capovolgimento delle gerarchie.
Il cinema qui riesce a superare la propra essenza, transmutandosi nel proprio opposto, dalla finzione alla verità.

lunedì 11 maggio 2009

GOMORRA


DI MATTEO GARRONE


2008


Era necessario aggiungere altre parole sul film più discusso e più celebrato del 2008? Forse no, ma mi assumo la responsabilità di un'operazione pleonastica, solo per esprimere il mio dissenso rispetto a questo a film, sia nei riguardi della sua essenza come prodotto filmico, sia verso l'atteggiamento con cui è stato accolto da critica e pubblico.
Mi ha enormemente stupito il livello a cui si è giunti nella celebrazione di quest'opera onestamente scontata e francamente commerciale, soprattutto tenendo conto della qualità della fonte: il romanzo-inchiesta di Roberto Saviano, best-seller che ha aperto tutta una stagione di denuncia mass-mediatica sul tema delle organizzazioni criminali presenti sul territorio napoletano e casertano, che con coraggio era riuscito mediante la scrittura (questo fantasma) a portare all'attenzione dei molti (e non dei pochi, come spesso avviene nelle operazioni intellettuali) un problema inspiegabilmente (?) ignorato e taciuto da anni. La divulgazione e diffusione è stata certamente agevolata dal particolare momento storico, in cui "la questione napoletana" è stata il feticcio della classe politica in lotta per il potere, e direi anche determinante nella caduta del governo Prodi (vedi questione famiglia Mastella) e nel conseguente esito delle elezioni dell'aprile 2008. Il successo di Gomorra, libro prima e film poi, può essere considerato in questo senso causa e nello stesso tempo effetto della grande attenzione nazionale verso il problema napoletano, inceneritori, mozzarella alla diossina, immondizia per le strada (pare che sia magicamente scomparsa), che per qualche mese hanno distratto gli italiani dalla tragedia familiare di turno.
Tornando al film, mi oppongo, e questo su due livelli di giudizio:
1. In parte già esposto, sulla etichettabilià dell'opera quale film di denuncia, cosa appunto scontata vista la corsia preferenziale su sui correvano gli sceneggiatori, il libro di Saviano appunto, e come film formativo-educativo per un bacino di utenza variegata come quella napoletana, italiana, e non. Riduco la questione a due realtà geografiche soltanto, quella italiana e quella napoletana che con maggiori mezzi (seppur scarsi) mi posso permettere di valutare.
Rispondo a chi afferma: "I napoletani con questo film e attraverso questo film prendono coscienza dei meccanismi malavitosi che regolano gli affari della loro città, e comprendono la causa dei problemi che vivono quotidianamente". Tutti coloro in qualche modo coinvolti nei meccanismi malavitosi, vuoi come reali attori della camorra vuoi come semplici cittadini che a livello secolare sono stati penetrati da un certo tipo di mentalità diffusa, assistono alla messa in scena di un film spettacolare condito di tutti gli ingredienti tipici di un film spettacolare: avventura, suspance, salse erotiche, uccisioni, ecc. ecc., come nella maggior parte dei film in stile "americano", solo che qui i personaggi parlano la loro lingua, ascoltano le "loro" canzoni, ottenendo così una vera e propria sublimazione per immagini in movimento di quel contesto geografico-campanilistico che per quanto corrotto e orribile sia è pur sempre il "loro" mondo. C'è in fondo, grazie al potere che il cinema esercita, una sorta di rispecchiamento/proiezione dello spettatore nella materia trattata, il quale spettatore in questo caso non risulta offeso né indignato, poiché l'opera non fornisce nessun mezzo critico, non utilizza realmente nessun mezzo di denuncia, non propone realmente nessuna alternativa, non propone, come a mio parere sarebbe giusto, alcun personaggio positivo, ma si limita a riprodurre il senso di rassegnazione e di impotenza che ritrovo nella mia città, in questo popolo tradito, in me stessa.
Discorso diverso per ciò che riguarda la reazione degli italiani (intesi come entità geografica distinta dal territorio campano, non napoletano). Ho visto di recente il trailer del film, recitava "Il film che ha cambiato l'Italia"...(!!!). Bene. Di certo gli italiani si sono indignati, di certo la reazione di chi questo mondo non lo conosce affatto, di chi nulla ha da mettere in gioco, ma piuttosto ha da gongolare della propria estraneità, della propria superiorità morale e civile, trova la conferma delle proprie convinzioni, dei propri giudizi sull'universo macabro che è il Sud Italia e nella fattispecie Napoli sua capitale.
Un esempio per tutti della scorrettezza politica di questo film sta nell'episodio in cui Toni Servillo è a colloquio con un imprenditore (difficile avere dubbi sulle sue origini "polentone") il quale si assicura della "trasparenza" e della "pulizia" del processo di smaltimento di una quantità enorme di rifiuti tossici ad un prezzo quanto meno sospetto. Non credo casuale questa omissione di informazioni sui reali meccanismi che sottendono al ciclo di smaltimento di veleni provenienti dall'Italia settentrionale e riversati in ogni angolo del territorio campano. Le responsabilità diffuse sono taciute in favore di una compiacenza e un ammiccamento al potere economico e politico. Davvero un film coraggioso. Oggi più che mai assistiamo alla frammentazione dell'identità italiana, fenomeno utile al potere politico e alle leggi di tipo federalista che sono state attuate, di certo leggibili come esito di un lungo processo preparatorio; fenomeno che ha ottenuto una crescita esponenziale della demonizzazione di un popolo e di un territorio.
2. Dal punto di vista strettamente cinematografico il film ha diversi e molteplici punti di interesse, sia per il recupero di tradizioni del cinema italiano, nello specifico neorealiste, con l'utilizzo di attori non protagonisti e di scenografie "naturali" o ready-made (una per tutte: le "Vele" di Scampia), sia per la qualità della regia e del senso estetico generale che risulta dall'opera. Tuttavia in linea con la sua superficialità questo film contiene nel primissimo fotogramma la sua immagine più pregnante, più bella: l'uomo nello spazio, l'uomo che si proietta oltre se stesso, il superuomo, il senso di potenza e di invincibiltà, in realtà un uomo nella cabina di un centro abbronzante, che sta per morire, ucciso.

martedì 5 maggio 2009

Divorzio all'italiana


Divorzio all'italiana

di Pietro Germi

Commedia, Italia (1962)


Fefè (Marcello Mastroianni), fascinoso e inquieto barone siciliano subisce la sua vita matrimoniale e familiare evadendo soprattutto nel capriccio di una nuova passione, l'amore per la splendida cugina sedicenne Angela (Stefania Sandrelli). Le giornate di questa virile Emma Bovary scorrono vuote e a tratti isteriche nell'insofferenza sempre più repressa per la baffuta moglie Assunta, nel disprezzo della sua voce e delle sue carni. Giornate ipocondriache trascorse vagheggiando un pretesto, una svolta. Un incontro fortuito con Angela gli svela che i suoi sentimenti sono corrisposti; Fefè riguadagna fiducia e spinge l'accelleratore del proprio destino.

Il suo progetto di “divorzio fai da te” nasce da un fatto di cronaca, dal processo ad una donna resasi colpevole di omicidio ai danni del marito infedele, esito: 6 anni di carcere grazie all'attenuante prevista dal codice penale in materia di delitti passionali. Fefè è pronto a tutto, al delitto e alla pena pur di liberarsi della moglie odiosa. Si procura gli ingredienti: l'amante (un uomo riemerso dal passato di Assunta), l'atto d'infedeltà e le prove (acquista un regitratore di suoni in seguito sistemato strategicamente nel salotto di casa). A questo punto l'atto omicida vero e proprio è legittimato ma anche inutile rispetto allo scopo iniziale di “divorziare”: la moglie e l'amante sono fuggiti senza lasciare traccia. Fefè a questo punto viene scaricato dal suo autore, il quale pare puntare il dito sul coro, sulla società che avviluppa l'individuo manovrato e mosso nelle scelte dal ricatto della riprovazione sociale. Da carnefice a vittima, Fefè è costretto a barricarsi in casa, additato come "cornuto" diventa vittima di scherno per tutto il villaggio, ripudiato dalla sua famiglia, è pressato socialmente a vendicarsi. La vendetta diventa ineluttabile, il costo è la riprovazione sociale.

Attraverso l' utilizzo dell'ironia, meccanismo consolidato nella commedia all'italiana, l'indagine filmica qui si fa realmente socio-antropologica: su un dagherrotipo caldo-afoso e un palcoscenico provvisto di coro al protagonista, viene rappresentata per immagini una delle pagine più nere e tipiche del costume italiano, addensate e metaforicamente evocate dal delitto d'onore,la regolamentazione di epidemie culturali basate su valori reazionari e criminali sublimati dalla secolarizzazione:

Codice Penale, art. 587
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

Tanti potrebbero essere i suggerimenti di attualizzazione di questo fenomeno italiano che rende quanto meno discutibili i criteri legislativi, laddove il potere politico ha il "vizietto" di assecondare gli istinti sociali, che valgano il consenso.

Tali regolamentazioni sul delitto d'onore sono state abrogate con la legge n. 442 del 5 agosto 1981.

Film seminale per la commedia italiana, nell'ambientazione, nelle tematiche nel gusto per il grottesco; un esempio per tutti “Mimì metallurgico ferito nell'onore” di Lina Wertmuller.

Dillinger è morto


Dillinger è morto.

di Marco Ferreri

Italia, 1969


Mi ritorna in mente, a scadenze fisse, e ora, Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri. Un film visto diversi anni fa, "rivivibile" ma "irrivedibile" (scusate la licenza ghezziana) per il senso di profanazione che sempre scatena "il riprendere daccapo" qualcosa di finito, profferire un segreto impacchettato, un'emozione durata 90 minuti.
Di sera, in silenzio vedo i "miei" piedi ke attraversano le stanze e i corridoi della "mia" casa "vuota" in una di quelle rare occasioni fortuite/ricercate in cui ci si ritrova soli a rilettere sulle pareti la propria ombra e a dagli importanza. Un immotivato senso di felicità mi pervade, nonostante l'antitesi con gli ambienti metafisico- surreali. Apro il frigorifero e inizio a fissare il suo interno (...). Resto lì immobile. Mi ridesto, richiamata dallo stomaco impaziente. Inizio a preparare un sugo per me sola, dopo ore di cure maniacali consumo quella ke ha l'aria di un'ultima cena.. .. ..
Questo viaggio metafilmico a posteriori - scatenato dal vuoto di azioni e dal silenzio di un'intolleranza prolungata ad essere in un Dove, in un Come o in un Chi che non conicida esclusivamente con noi stessi, non può ke essere un atto tragico, prodotto da una duplice alienazione: interna-iliadica (la coscienza è iperrealizzata, a scapito dell'inconsapevole flusso vitale) ed esterna-odisseica (l'essere sociale-civile è estomesso e stravolto storicamente). Nell'ingegnere Michel Piccoli rivivo epidermicamente la summa della tragedia borghese contemporanea, un ritmo solitario di rumori materialistici e indifferenti.