Pagine

mercoledì 25 maggio 2011

CINEMA ITALIANO: CHI SIAMO, DA DOVE VENIAMO, DOVE ANDIAMO


Assistiamo da anni, increduli e rassegnati, al declino della nostra gloriosa tradizione cinematografica, una tradizione popolata da attori di talento e fama internazionale, che ha permesso a grandi capolavori di vedere la luce, a grandi registi di esprimersi tra interessi sperimentali e realistici. Le poche cose d'interesse prodotte dal nostro cinema recente non sono che eccezioni in un panorama delirante di commediole e psicodrammi col solo pregio di far respirare le sale cinematografiche altrimenti deserte. Eccezioni che si incamminano nel pericoloso campo minato del "Cinema" con l'assicurazione furto e incendio: un attore feticcio, una citazione felliniana, una visione neorealista, elementi non casuali, che in modo o nell'altro rappresentano la nostra storia cinematografica, quella specificità italiana che sembra smarrita. Il cinema italiano, ora alienato da se stesso e dal mondo, ha avuto con il neorealismo a attraverso il suo superamento, il suo centro e il suo laboratorio: il 1936 può essere considerato come l'anno zero del cinema italiano, l'anno di fondazione della rivista «Cinema». Intorno ad essa si erano raccolti un gruppo di giovani antifascisti che avevano iniziato a far confluire nella “leggerezza” delle pagine di una rivista di cinema un discorso culturale e politico. È dalle pagine di «Cinema» che si assiste alla messa in discussione del tradizionale modus operandi dei cineasti italiani, all'individuazione di una nuova esigenza imposta dalla situazione storica. Sotto i contraccolpi della crisi economica mondiale il regime fascista incrementa l'indirizzo dirigista e l'ideologia colonialista, sigillata dall'avventura etiopica, mentre si assiste all'ascesa del nazismo in Germania, e a derive dittatoriali generalizzate. Il 1936 è anche l'anno della guerra civile spagnola, che si protrarrà per tre anni, una sorta di prova generale del secondo conflitto mondiale. In questo fosco contesto il cinema si mostra follemente spensierato: la maggior parte dei film prodotti tra il 1935 e il 1940 sono favole comico-sentimentali completamente aliene dalla realtà e da qualsivoglia inquietudine sociale o politica. Per quanto la realtà venisse esiliata, per quanto si disinfettassero i set da problemi e preoccupazioni, questa spensieratezza (sigillata dalle denominazioni locali “Telefoni bianchi” in Italia, “Comédie mondaine” in Francia, “Light comedy” in Gran Bretagna, fino all'estensione del termine “bianco” a tutta la cinematografia del tempo) lascia emergere la drammaticità della situazione storica rendendo lo schermo cinematografico specchio della schizofrenica e delirante realtà sociale. L'intrigo, gli inseguimenti, i colpi di scena, i litigi, le agnizioni, quasi sempre incentrati su una coppia, location per lo più borghesi e preconfezionate, e l'immancabile happy ending, sono gli elementi che concorrono a delineare un quadro di inquietante spensieratezza, che non poteva non scatenare presto o tardi il disgusto degli stessi operatori dello spettacolo. A completare il quadro il filone bellicistico, nazionalistico e di propaganda. I pochi cineasti italiani non infettati dalla moda dominante iniziano a guardarsi intorno, lasciandosi affascinare in particolar modo dal cinema francese dei Renoir e dei Carné, un cinema intriso di letteratura e versimo. Il cinema inizia a prendere atto del proprio potere, delle potenzialità di analisi sulla realtà storica possibile solo attraverso una rivoluzione interna, attraverso la soggettistica, ambientazione, messa a punto del personaggio, l'abbandono di vizi consolidati che facessero del cinema un mezzo artistico e uno strumento critico, sguardo al di sopra della retorica di regime. Si apriva così un laboratorio sulle possibilità del cinema di avvicinarsi alla vita reale, delle città reali, per le persone reali. Al centro di questo discorso culturale la lezione di Giovanni Verga. La cerchia di «Cinema» se ne occupa approfonditamente cercando di stabilire nel “padre” del Verismo italiano il referente necessario per una riforma cinematografica. La lezione di Verga viene assunta come punto di riferimento per la realizzazione di una sorta di movimento d'avanguardia che sancisce un legame indissolubile tra cinema e letteratura con il conseguente abbandono di soggetti cinematografici codificati e accondiscendenti nei confronti del pubblico, nonché inerti nei confronti del presente storico; attraverso un rinnovato interesse per le fonti storiche e per le grandi opere letterarieattraverso un cinema “nomade” e non più “sedentario” - che non varca mai la soglia dei teatri di posa - che metta al centro il vero paesaggio italiano e l'uomo italiano in carne e ossa, ricomponendo l'uomo-frammento, riempito di sentimenti, di ossessioni, in un mondo da riempire per uscire dal decorativismo. la riforma investe anche questioni strutturali, estetiche e tecniche, che provano a traghettare l'insegnamento di Verga anche su problemi di linguaggio. La questione del verismo diventa cruciale per il cinema, strumento di ripresa diretta della realtà che dal giorno della sua nascita ha compreso che il proprio scopo, la propria destinazione era idealmente quella di “mettersi a raccontare novelle”, prendendo così fatalmente la via del naturalismo. Debenedetti indica questa via fatale per il cinema e insiste sulla necessità di chiarire l'equivoco del passivo occhio fotografico, perché naturalismo è poesia e non cronaca impassibile registrata meccanicamente. Non si tratta tanto di riferirsi alla realtà realizzando strategicamente dei film storico-sociali propriamente detti, ma si tratta di perseguire la definizione, la messa a punto di uno stile che superi e smascheri l'ipocrisia del mondo ovattato, mai problematico, messo in scena dal cinema. 


venerdì 20 maggio 2011

ALLONSANFAN


DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
ITALIA, 1974

1974|1816. Fulvio Imbriani, intellettuale aristocratico affiliato alla setta dei "Fratelli Sublimi" viene rilasciato dopo un periodo di detenzione. Fa ritorno nella villa di famiglia dove ritrova la sorella, i nipoti, la sua compagna, Charlotte, l'amore mai coltivato per il figlio, scoprendosi innamorato di questa dimensione "domestica", lontano dalla lotta politica e rivoluzionaria. Ma i "fratelli" attendevano con ansia il giorno della sua scarcerazione, per realizzare la tanto sognata spedizione di liberazione del meridione. Ma Fulvio è disilluso, "guarito" dal virus dell'utopia e della rivoluzione, prova per i "fratelli" un odio quasi fisico, cerca di liberarsene, non esita a tradirli, a sabotare le loro iniziative, a provocarne la morte. Ma essi non dubitano della sua fedeltà alla causa, non cedono all'avversità del fato; idealisti e ingenui rivoluzionari procedono con il passo del "salterello" fino al tragico epilogo.

Un film sul risorgimento? Non proprio...Un film storico? Non esattamente...
Non è la rappresentazione di un episodio storico preciso che ispira i fratelli Taviani, ma la messa in scena di uno scontro tra pubblico e privato, tra un sogno collettivo a lungo condiviso e la stanchezza del singolo, caduto sotto il peso delle difficoltà e dei risultati mai raggiunti.

"A me la vita è data una volta sola e non voglio aspettare la felicità universale"

Non sono i fratelli sublimi a crollare sotto il peso dei bastoni dell'ignoranza, la loro opera, quel sogno, troverà ancora qualcuno disposto ad abbracciarlo. Ma quel sogno dovrà essere trasportato nella realtà, nella storia, affinché la lotta non si perda nel vuoto.
Fulvio possiede una lucidità agli altri estranea, sente che quella è una lotta fuori dal tempo, una lotta che arriva troppo tardi o troppo presto:

"Ma dove volete andare così mascherati? Sono venti anni che andate, venite, vi mascherate; che corriamo dietro a faville che sono soltanto cenere!"

I Taviani suggeriscono una mediazione tra la collettività e gli interessi del singolo, una sintesi degli elementi dialettici della storia, applicabili al passato quanto al presente della nostra storia nazionale.