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mercoledì 20 marzo 2013

FANTASMI FATTI IN CASA

Johann Heinrich Füssli, The Nightmare 1781


Se ti capita di ritrovare nella cantina di tua nonna ormai defunta una collana di libri sui fantasmi [dei Tascabili Economici Newton, 100 pagine 1000 lire], potresti essere indotto a credere che stai un tantino esagerando con questa storia di dare un tocco romantico alla tua vita. Ma tant'è, e non potendo sottrarti alle fortuite coincidenze del caso, decidi di assecondarlo. Ti accorgi così che esistono molte tipologie di fantasmi: quelli italiani, quelli irlandesi, inglesi, tedeschi, francesi. Li ha affrontati Mérimée (la Venere d'Ille), Théophile Gautier (Il piede della mummia), Zola (La casa degli spettri), Guy De Maupassant (Chi lo sa?) Hoffmann (L'ospite misterioso), Walpole (La vecchia), Pirandello (La casa del Granella)...Fitz James O'Brien (Che cos'era?) e li sto affrontando io...dedicandomi alla loro lettura, scappando dai miei per caricarmi dei loro. Indecisa sul percorso da seguire decido così, a simpatia, di partire dalla Francia, luogo in cui, pare, i fantasmi abbiano avuto una proliferazione straordinaria anche tra gli autori di estrazione realista; naturalmente i fantasmi di Zola e Maupassant non potevano non infilarsi dentro casa, venirti a scovare nella tua realtà, a terrorizzarti laddove ti senti più al sicuro. Certo che se ti capita di leggere Il piede della mummia di Gautier potresti essere piuttosto portato a credere che quel giorno Gautier era a corto di idee o che avesse una gran voglia di scherzare, perché onestamente non c'è qualcosa di meno spaventoso di una principessa egiziana tutta in ghingheri che ti entra in camera di notte per riprendersi il suo piede che tu hai allegramente acquistato da un rigattiere per usarlo come fermacarte. La principessa si rimette a posto il piede, ma non contenta ti porta a fare un giro da suo padre, e tu giacché ci sei ne approfitti per chiederla in sposa...Mi sembra un po' troppo, e mi sa troppo di "fantozziata" per poter stimolare il mio pur suscettibilissimo punto della paura. Per non parlare del simpaticissimo e favolistico protagonista di Chi lo sa? di Maupassant, che si consegna in manicomio dopo aver visto tutti i mobili e gli oggetti di casa sua uscire in fila indiana dalla porta di ingresso. Ed è un classico fantasma anche quello di Angelina in La casa degli spettri di Zola, dove troviamo un mix concentratissimo di fortunati espedienti horror: la villa abbandonata, il degrado del giardino, i cigolii delle porte e delle finestre, l'eco del lamento di una ragazza morta in circostanze misteriose...
Mi si potrebbe obiettare che ho "qualcosa" contro i francesi, tuttavia il discorso non cambia se passiamo oltre, in Irlanda per esempio. Ebbene, provate a farvi terrorizzare dal Che cos'era? dell'irlandese O'Brien alle prese con un fantasma invisibile sì, ma dotato di una materialità corporea tale da poter fare a pugni, venir legato e persino morire di fame! E ancora da Margaret, in Capelli d'oro di Bram Stoker, il fantasma forse più "moderno" fra tutti, quanto meno il meglio organizzato: il non si sa bene se marito o compagno Geoffrey cerca senza successo di ucciderla, lei torna per cercare vendetta su di lui e sulla nuova moglie ma finisce per farsi ammazzare davvero; le scarse abilità vendicative dimostrate in vita dispiegheranno un inquietante potenziale in morte servendosi della ricrescita di una mortifera chioma bionda. Ma cos'hanno in comune questi fantasmi? Difficile negargli una dimensione casalinga, difficile sconfessare la loro vocazione domestica, familiare. La casa è l'ambientazione horror per antonomasia, la famiglia il cast stellare, di vittime e carnefici; il matrimonio il germe della follia; non sono mai stata una fan del matrimonio, ma cristo santo deve fare proprio un brutto effetto per indurre schiere e schiere di autori a farsi tormentare dalle pareti di casa. [Altrove affronterò i tedeschi e gli anglofoni] 
Che effetto fa un fantasma nel 2013? Probabilmente fa morir dal ridere, certo può ancora fare una certa paura, ti può far morire anche, ma deve essere davvero bravo e certamente deve stare fuori da un libro o da un film e farsi in qualche maniera vedere o sentire proprio accanto a te, mentre cammini in quel corridoio strettissimo con le luci basse; essere lì con te perché tu possa dargli una minima possibilità. Gli altri fantasmi, quelli che sono riusciti chissà come a farsi accogliere da un autore, se ne vanno quasi tutti da dove sono venuti portandosi dietro una grande frustrazione. Pensi di spaventarmi? Forse non è questo il punto, forse il ruolo dei fantasmi è altrove. Ma dove? Il problema dell'aldilà, cosa c'è dopo la morte, cosa sono i rumori che sento in cantina? E così presa da pensieri altissimi quanto inutili che ti becco in tv?





PERIMETRO DI PAURA

titolo originale: 100 Feet
di Eric Red, USA 2008.

Marnie, condannata  per omicidio, ritorna a casa dopo aver trascorso un periodo di prigionia: sconterà il resto della pena agli arresti domiciliari, nella casa dove ha vissuto un matrimonio da incubo, maltrattata e pestata a sangue dal marito poliziotto, dove lo ha infine ucciso con tre coltellate. Ad attenderla, troverà lo spettro di Mike, il quale non sembra intenzionato a perdonarla anzi, ha tutta l'aria di essere molto incazzato. E che non ti venga in mente di scappare, perché la polizia è lì sull'uscio pronta come al solito a fare la cosa sbagliata.

Diciamolo subito: è un brutto film. Ma qui ed ora calza a pennello. Il fantasma del buon vecchio Mike ha un'aria consunta, sembra che qualcuno gli abbia buttato dell'acido sulla faccia e che stia lentamente ardendo vivo [saranno le fiamme dell'inferno?] Come se non bastasse ci sembra pure abbastanza confuso poverino, e a tratti ti viene la voglia di compatirlo, perché le sue sono le incursioni un po' impacciate di un marito geloso [che lancia i piatti contro la moglie e pesta a sangue il giovanotto della spesa che lei si è portata a letto] e non i meticolosi propositi di un'anima dannata. Certo è ironico. Per una volta si finge che a vincere la quotidiana guerra casalinga fra coniugi sia lei, la donna, e non, come di consueto, il maschio, ma solo per smentire tutto dopo 5 secondi, dandogliela vinta pure da morti. Dunque è questo lo scopo ultimo dei fantasmi? Quello di ritornare per rimettere ordine? L'ennesima invenzione del genere umano per rimandare ad un altrove ciò che non sappiamo o non vogliamo fare in vita? O un meccanismo masochistico per auto-torturarci? Di certo c'è che i fantasmi tengono compagnia, sono una buona scusa per i pigri per non andare in bagno di notte, e sono di gran lunga più simpatici dei sempreverdi vampiri e ancor più degli zombie tanto di moda oggi. Almeno i fantasmi usano l'immaginazione per spaventarci.

Serena Di Sevo

lunedì 11 marzo 2013

IL BANCHIERE ANARCHICO


IL BANCHIERE ANARCHICO
Titolo originale: O banqueiro anarquista, 1922

di: Fernando Pessoa
(Lisbona 13 giugno 1888, Lisbona 30 novembre 1935)

Un banchiere anarchico. Potrà sembrare paradossale, ma, come dice lo stesso Pessoa, un paradosso ha valore solo quando non lo è. Pessoa prende un ossimoro universale e cerca di scioglierlo interpretando i 2 ruoli principali del racconto, gli ennesimi alter ego della sua vita. 
Il plot è molto semplice: un banchiere racconta ad un giornalista come sia arrivato a realizzarsi come anarchico, nella teoria e nella pratica, scegliendo il mestiere di banchiere, abbandonando l'illusione di una lotta collettiva e di classe, abbandonando i suoi compagni dopo aver capito che ogni forma di organizzazione seppur anarchica non è altro che la creazione di una nuova tirannia consistente nella dissoluzione del sistema esistente per la creazione di un sistema nuovo, che in quanto tale non può essere che ingiusto. Il suo percorso affronta e scioglie le mille contraddizioni tra la natura umana (che è profondamente egoista e utilitaristica) e l'anarchismo (che persegue un obiettivo di felicità universale) individuando nell'arricchimento personale la risposta ad un doppio ordine di esigenze: svicolarsi dal sistema, fottendolo. 

Come osserva Concita De Gregorio nella prefazione al libro dell'edizione che ho letto, il racconto sembra la lezione alla lavagna di un professore malato di pedanteria. Piuttosto noioso. Ma la noia sta nella prosa e nel ritmo, non nel cuore di chi legge. La mia pelle si è macchiata di pulsanti escrescenze, i miei capelli elettrificati hanno assunto variopinte sfumature di verde acido, e il mio debole cuore non ha retto a cotanto dolore. E quel dolore dura ancora. Non c'è nulla per cui valga la pena lottare se non per la propria e solitaria felicità, ciascuno per proprio conto, coi propri mezzi e per i propri scopi. Qualsiasi tentativo in direzioni diverse non può che essere frustrato. Ti vien naturale odiare questo libraccio, ti viene facile vedere quanto sia stato folgorante e veggente sul futuro del XX secolo e non puoi far altro che incassare il colpo. Il libro è la dimostrazione di una formula matematica e che ti piaccia o no il risultato è esatto. Alle scuole medie si usava forzare il risultato delle dimostrazioni sperando che il prof. non si accorgesse dell'imbroglio, e al liceo capitava che qualcuno ti passasse l'esercizio di matematica (che tu eri convinto fosse la lista della spesa della mamma di Mohammed) chiedendoti di cambiare qualcosa per evitare di essere beccati dalla prof. Ma come è arrivato Pessoa (e chi con lui) a far quadrare la formula? Forse simpaticamente forzando il risultato dell'esercizio? Forse cambiando qualcosa all'onestà della formula originaria? Certo, perché tra le molte cose che siamo stati capaci di mescolare nel secolo scorso, oltre alla carte della briscola e del tressette, ci sono le formulazioni politiche con i modi personalissimi di aderirvi. E Pessoa ci viene a raccontare che un banchiere si è fatto libero (come Gesù Cristo si è fatto uomo) arricchendosi, fottendo il sistema senza alimentarlo, perché il sistema capitalistico esisterebbe ugualmente anche senza la sua adesione e che cesserà di esistere non già quando smetteranno di esistere i capitalisti, ma quando il capitalismo verrà sconfitto. E il gatto si mangia la coda e bla bla. Provate a togliere un piede al tavolo e vediamo quanto resiste prima di accasciarsi. E basta con questa storia che non siamo nulla in confronto al tutto. E non parlo né di universi paralleli né di qualsivoglia aldilà. Ma parlo di questo mondo materiale e di questa contingenza, in cui tutti si sentono pecore e si comportano da pecore ma non la smettono più di belare sperando che qualcuno le scambi per il pastore. 


WILL YOU PLEASE SHUT THE FUCK UP? 
CHIUDETE QUELLE BOCCHE DEL CAZZO?

Dopo qualche ora, mi capita tra le mani l'intervista a Tom York per l'uscita del disco del suo nuovo progetto Atoms for Peace, il quale ad un certo punto chiede: perché non diamo fuoco alle case dei banchieri? Ecco. Smettiamola di espiare la nostra codardia belando dalla mattina alla sera come fossimo in un confessionale a cielo aperto. Quelle scatolette di legno riportiamole nelle chiese e riprendiamoci il cielo aperto. 

                




domenica 10 marzo 2013

NON VORREI CREPARE |BORIS VIAN





   












Omaggio a Boris Vian 
| Non vorrei crepare
titolo originale: Je voudrais pas crever  (pubblicato postumo nel 1962)
di Boris Vian [Ville-d'Avray, 10 marzo 1920 – Parigi, 23 giugno 1959]
    Io non vorrei crepare
    senza aver visto *almeno* i cani messicani neri
    che senza sognare dormono a ciel sereno;
    senza aver conosciuto ai tropici le voraci
    scimmie divoratrici (le scimmie a culo nudo).
    O anche i ragni argentati dai serici nidi felici
    di spruzzi traforati.
    
    No, non vorrei crepare ignorando se la presunta
    monetina che spunta sotto la faccia della luna
    stia a nascondere una seconda faccia a punta.
    Se - dopo gran riflessioni - il sole e' freddo.
    Se le famose quattro stagioni
    son proprio quattro e non tre.
    Senza aver passeggiato per il corso in vestaglia
    guardando fissa la marmaglia dei guardoni.
    Senza aver ficcato i miei *coglioni*
    in ogni posto vietato.
    
    Io non vorrei finire senza sapere la lebbra
    (beh, si fa per dire)
    o almeno la febbre dei sette mali che
    piu' o meno certamente si acchiappano laggiu':
    resterei indifferente al bene e al male
    purche' di tutta questa vasta delizia
    l'assoluta primizia
    fosse riservata a me.
    
    E poi non basta, c'e' tutto cio' che conosco,
    che ho imparato ad amare: il fondo verde bosco
    del mare dove le alghe sottili gareggiano nel
    disegnare onde di valzer sugli arenili.
    E ancora la terra, che a giugno crepita e sbotta
    di odori, e le conifere, e un semplice pugno d'erba...

    ... e i baci di quella ! Si, insomma quella, signori.
    Ursula.
    Ursulotta. La piu' bella orsacchiotta
    fra tutte le orse maggiori.
    Quella per cui non vorrei proprio crepare
    prima di averla avuta tutta. Goderla la bocca nella bocca,
    i bei seni nelle mie mani, poi con gli occhi il resto e...
    Basta! Questi son fatti miei. Taccio.
    
    Crepare ? Non puoi, come faccio ? ( come si fa ? )
    Come vuoi crepare senza che ancora si siano inventate
    le cose che contano: le rose eterne, le giornate di un'ora,
    i monti marini e le spiagge, beh, le spiaggie montagnose.

    La cuccagna finiti tutti i tormenti, i quotidiani
    splendenti di colori, i bambini contenti e tutti i trucchi
    ancora dormenti dentro i crani stipati di ingegneri ingegnosi,
    socialisti associati, urbanisti urbanizzati e pensatori pensosi.

    Dio, quante cose da fare, da intendere e volere
    da contare e aspettare, mentre la fine gia' avanza,
    in notti sempre piu' nere striscia, con la schifosa sembianza
    di un rospo, non c'e' piu' scampo, eccola gli occhi nei miei...
    proprio no, non vorrei crepare, nossignori, nossignore,
    non senza aver fatto esperienza
    del sapore tormentoso di cui sono goloso e geloso.
    Il sapore piu' delicato che si possa sentire,
    il piu' forte. No!

    No, non voglio morire
    prima di aver gustato
    il gusto della morte.

mercoledì 6 marzo 2013

MEMORIA DELLE MIE PUTTANE TRISTI



MEMORIA DELLE MIE PUTTANE TRISTI
Titolo originale, Memoria de mis putas tristes, 2004.

di Gabriel García Márquez
(Aracataca, Colombia, 6 marzo 1927)


Un solitario giornalista nel giorno del suo novantesimo compleanno decide di regalarsi una notte d'amore con un'adolescente vergine, scoprendosi innamorato per la prima volta nella sua lunga vita d'indifferente.

Uno dei più grandi misteri della storia dell'umanità non è cosa vogliono le donne, ma quando e come donne e uomini si decideranno a capire cosa vogliono davvero. E così a novant'anni ti ritrovi a fare i conti con la tua vita, accorgendoti di aver perso il conto e di non avere più il tempo per contare. Siamo tutti i giorni bombardati dall'urgenza di una conclusione qualsiasi ad un'impresa qualsiasi, nel vano tentativo di arrivare a una vaga felicità. Il nostro novantenne "Professor Mesto Colle", invece, non ha mai avuto alcuna urgenza, ma tutto nella sua vita è stato casuale e disinteressato, ogni scelta è stata guidata da un'indolenza per le conclusioni: non c'è stato nella sua vita alcun picco, non c'è stato nella sua vita alcun amore. Molte donne lo hanno amato accettando di essere pagate puntualmente, scontrandosi con la sua cecità o contro la porta chiusa del suo appartamento. Ma cosa c'è dietro questa apparente storia di pedofilia, dietro il racconto dello sprint finale di un anziano col piede nella fossa? Cosa c'è dietro ad una vita di risultati puntualmente dribblati? Due cose (maybe), il tempo e la libertà.
IL TEMPO. Quand'è che ci decidiamo ad amare realmente? Forse quando per noi il futuro è qualcosa di già scritto. Davanti a noi ci sono strade già segnate, sogni fatti di segni e di volti riconoscibili nella nostra realtà attuale. E non perché l'amore sia l'ennesimo egoismo, ma perché la nostra felicità è egoisticamente la condizione sine qua non dell'amore.
LA LIBERTÀ. Quand'è che ci decidiamo ad amare realmente? Forse quando accanto a noi giace un individuo sostanzialmente inconsistente, un individuo che non abbia su di noi alcun condizionamento, che non rompa il ritmo lento e inesorabile di una vita da cane randagio, cercando, magari, di impedirci di girare nudi per casa.
Il tempo e la libertà di essere chi siamo, inesorabilmente. Delgadina non è il pentimento sul letto di morte ma l'estremo gesto di conferma delle convinzioni di una vita, il simbolo e il suggello della sua intera esistenza: Delgadina è il tempo perché nella purezza della sua giovane età egli riversa la forza vitale che non può più esprimersi nel suo corpo; Delgadina è la libertà, perché è una puttana, perché è muta e non pretende niente, Delgadina è il tempo e la libertà di rimanere nel mondo, eternamente libero. E fanculo il letto di morte.

"Le cantai all'orecchio: Il letto di Delgadina da angeli è attorniato. Si rilassò un poco. Una corrente calda mi salì per le vene, e il mio lento animale in pensione si svegliò dal suo lungo sonno".

Serena Di Sevo

lunedì 4 marzo 2013

10 FILM PER SOPRAVVIVERE ALLA POLITICA ITALIANA




1 | TUTTI A CASA | 1960 di LUIGI COMENCINI (Intanto lo hanno annunciato, poi ad arrivarci...e vivi!)

2 | LA LUNGA NOTTE DEL '43 | 1960 di FLORESTANO VANCINI (giusto per farti un'idea sul tuo vicino di casa, quello che tutto vede ma nulla sa, che tutto sa ma nulla vede, sta a te decidere se per vigliaccheria o per comodità)

3 | DJANGO | 1966 di SERGIO CORBUCCI (approfitto del nuovo e superlativo Django di Tarantino per rievocare il vecchio. La sua uscita creò una vera e propria corsa al sequel, alla citazione, alla riproduzione, fosse anche soltanto del titolo; il modo migliore per esorcizzare un eroe? Sputtanarlo! Così cosa rimaneva del nostro eroe? L'eterna ripetizione di un mito per le bocche di saccenti ignoranti. Ecco cosa piace agli italiani: parlare per sentito dire, pronunciarsi a tutti i costi su qualsiasi argomento, fare i pappagalli, ma bada bene, solo se è di moda.)

4 | SACCO E VANZETTI | 1971 di GIULIANO MONTALDO (il sistema si protegge con punizioni esemplari, oggi più furbamente il sistema ti uccide mediaticamente e purtroppo a cascarci non sono soltanto i tonti e le signore)

5 | SAN MICHELE AVEVA UN GALLO | 1972 di PAOLO E VITTORIO TAVIANI (per capire gli interminabili e inconciliabili dissidi interni alla prospettiva rivoluzionaria)

6 | ALL'ONOREVOLE PIACCIONO LE DONNE |1972 di LUCIO FULCI (Che stravagante ricordo la  censura...eccoci qua, senza filtro, ad assistere agli appetiti sessuali di anziani scimuniti, e no, non mi riferisco solo a Berlusconi)

7 | ALLONSANFAN | 1974 di PAOLO E VITTORIO TAVIANI (ogni rivoluzione ha il suo tempo ed è troppo spesso rimandata e ostacolata dalla cecità di ostinati e improvvisati ribelli)

8 | L'ESORCICCIO | 1975 di CICCIO INGRASSIA (guida ai possibili usi della cultura di sinistra ovvero quando il comunismo diventa un feticcio ad uso dei cattolici)

9 | METALMECCANICO E PARRUCCHIERA IN UN TURBINE DI SESSO E POLITICA | 1996 di LINA WERTMULLER  (come la sinistra si sia infilata sotto le coperte della Lega...una storia d'amore insomma)

10 | VINCERE | 2009 di MARCO BELLOCCHIO  (può avvenire che un tipo in gamba e carismatico trasformi le ansie di rinnovamento della prima ora in una dittatura personalistica che farà scuola, e può avvenire che chi decide di dargli una mano in quella prima ora, si trasformi in un pazzo nella seconda)


(esclusi eccellenti: Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Cadaveri eccellenti, Salvatore Giuliano, La grande abbuffata, Le mani sulla città, Todo modo...