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sabato 29 giugno 2013

BORIS VIAN | L'ASSASSINO


L'assassino [pubblicato per la prima volta in Dans le train num. 17, dicembre 1949, e in Italia in L'Unità 21 marzo 1988]
di Boris Vian [10 marzo 1920, Ville-d'Avray, Francia | 23 giugno 1959, Parigi, Francia]
racconto breve

Perché Caino ammazzò Abele
Era una prigione come un'altra, una baracca d'argilla e paglia dipinta di giallo cucuzza, con camino impudico
e tetto di foglie d'asparago. Questo accadeva da qualche parte nei tempi antichi, c'era sparso attorno un sacco di ciottoli e conchiglie di ammoniti, trilobiti e compagnia bella, residui dell'era glaciale. Nella prigione, si sentiva russare in giavanese, a strappi. Entrai. Un uomo giaceva sul tavolaccio, addormentato. Indossava delle mutande blu e ginocchiere di lana. 
- Oéoéoéoé gli gridai nell'orecchio. Avrei potuto gridare qualche altra cosa, direte voi, ma tanto dormiva e non sentiva. Quel grido, tuttavia, lo ridestò. 
- Arrgrr! fece per schiarirsi la gola. 
- Chi è quel rimbambito che ha aperto la porta? - Io dissi. Evidentemente, ciò non gli piaceva granché, ma non sperate di saperne di più neanche voi. 
- Dal momento che confessa, osservò, vuol dire che è colpevole.
- Ma anche lei lo è, replicai, o non sarebbe in prigione.
Difficile opporsi alla mia logica dialettica assolutamente diabolica. In quel momento, per giunta, una cornacchia bianca e rossa entrò dal lucernaio e fece sette volte il giro della cella. Rivolò via quasi subito e mi domando ancora, dieci anni dopo, se la sua comparsa avesse un senso. L'uomo, ammansito, mi guardò e scosse il capo.
- Mi chiamo Caino, disse
- Piacere
- Suppongo lei voglia chiedermi perché ho ammazzato Abele.

giovedì 27 giugno 2013

ČECHOV E LE DONNE

Jim Dine, 

Study for The Car Crash: Man in Woman's Costume and Woman in Man's Costume, 1960

ČECHOV E LE DONNE: 
SINGULA ENUMERARE OMNIA CIRCUMSPICERE.


Ho pubblicato un po' a caso nei tre post precedenti tre racconti di Čechov tutti al femminile. Le donne nell'opera di Cechov sono presenze massicce e innumerevoli, abitano quel mondo come una forza motrice troppo spesso sottovalutata in ambito critico. Non fanno eccezione i racconti: una forma incompleta e fuggevole fatta apposta per cogliere la moltitudine di problematiche connesse all'indagine sulla femminilità, un'indagine che deve fare i conti con il controverso ruolo [chiave] rivestito dalle donne nella società. Una serie di racconti "rosa" in cui è possibile trovare una gamma sconfinata di tipologie: donne giovani, vecchie, streghe, ammogliate, fidanzate, ingenue, furbe, fragili, disperate, avide, superficiali, riflessive, manipolatrici, provenienti da diversi ambienti e da diverse classi sociali; donne tutte diverse fra loro sì, ma sottoposte al giudizio unico (negativo) dell'autore. La fidanzata (1903) assume in tal senso un significato tutto particolare perché è l'unico, tra i racconti "femminili" di Cechov che ho avuto modo di leggere, a non emettere un giudizio negativo sulla protagonista, almeno non immediatamente. Mentre negli altri racconti l'autore dipinge ed espone un quadro infernale dell'universo femminile, benché sempre caricato di forte responsabilità nei confronti della struttura della società, della famiglia e della storia, qui scorgiamo un personaggio (Nadja) assunto sì a fare da crocevia tra un'epoca e l'altra della storia russa, ma con consapevolezza, con dignità; Nadja è una donna guidata da una volontà propria, dotata di una risolutezza totalmente assente negli altri personaggi, accomunati dallo status di docili, impotenti vittime del sistema, quasi sempre schiacciate dalle scelte imposte dalla struttura famiglia. Ne La strega, una giovane e bellissima donna è vittima del proprio status di moglie di un orribile e squallido marito imposto dall'alto, ed è vittima impotente dei propri istinti sessuali (frustrati); ne La cuoca si ammoglia, sotto lo sguardo incredulo e indagatore di un bambino, la protagonista (Pelageja) tra lacrime, urla e disperazione è costretta a sposare un uomo che non ama, che disprezza; ne Il racconto della signorina N. N. troviamo invece la vittima di se stessa, della propria vanità e di quella frequente propensione delle donne a intrappolarsi nella procrastinazione (o, al contrario, in un decisionismo folle e precipitoso guidato da una natura volubile). Molto diversa è, invece, la nostra fidanzatina Nadja; per lei l'autore ha predisposto delle possibilità impossibili per le sue colleghe, per lei la società e una classe sociale priviliegiata hanno previsto una via d'uscita. Nadja è stata educata a pensare, ed in effetti ha sempre pensato, che il naturale obiettivo della sua vita fosse il matrimonio. Nascita, crescita, fidanzamento, matrimonio, zero sforzi (fatta eccezione per quel "partorirai con dolore"), zero problemi, morte: è così che deve vivere una ragazza. Nessuno potrà mai interrompere questa linea retta tracciata nei secoli passati e futuri. Ma l'imprevedibilità della natura femminile può giocare dei brutti scherzi alle regole scritte e non delle strutture sociali, soprattutto se la donna incontra sulla propria strada l'uomo giusto, cioè l'uomo sbagliato. Ne La fidanzata, infatti, la ribellione, interna prima ed esterna poi, della protagonista sono in realtà indotte non già da un'autonoma presa di coscienza sviscerata dallo squallore della propria condizione e del proprio destino, ma dall'intervento diretto di una figura maschile "imprevista", totalmente eccentrica rispetto al contesto (Saša). Siamo cioè messi al centro dell'ennesima situazione in cui è in realtà l'uomo a trascinare la volontà femminile, in cui la decisione, una decisione qualsiasi (in questo caso il rifiuto del matrimonio e la fuga verso la conquista di un futuro e di una coscienza critica), è qualcosa di indotto e preordinato da una coscienza esterna e, naturalmente, maschile. Tuttavia in questo caso Saša altro non è che l'esperienza, la storia, l'a posteriori, il vissuto, quelle categorie assenti e non intuibili nell'universo ovattato in cui è cresciuta Nadja. Saša è dunque non già il fantasma dell'autore nel racconto, intervenuto per dire della non autonomia femminile, ma è il segno dell'intervento dell'esperienza e di un sapere altro necessario e imprescindibile per il cambiamento. La condanna dunque non è al mondo femminile, che è piuttosto preso come emblema dell'arcaicità della società e di una condizione universale da sovvertire e sovvertibile; la condanna ricade sulla testa di un sistema di funzionari e di mantenuti in cui le figure maschili hanno una funzione reazionaria o rivoluzionaria e il loro intervento si rende necessario perché chi più conosce, chi più ha vissuto, ha la possibilità se non la responsabilità del cambiamento. I due personaggi maschili principali Saša e il fidanzato Andrèj sono figure tipiche della letteratura russa dell'epoca: l'intellettuale critico e il giovane velleitario, ma Saša possiede anche dei tratti autobiografici dell'autore (in primis la malattia polmonare) che ne fanno un personaggio sfaccettato e affascinante e, in una certa misura non completamente coglibile. Di certo c'è che Čechov, attraverso Saša scruta la società, donne, uomini e quant'altro, e senza dare giudizi definitivi, coglie la possibilità del cambiamento riconoscendo agli intellettuali una funzione trainante.

Serena Di Sevo


mercoledì 26 giugno 2013

ANTON ČECHOV | LA FIDANZATA

Edvard Munch, Weeping nude, 1913
La fidanzata
racconto, 1903
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]
ČECHOV E LE DONNE, SINGULA ENUMERARE, CAPITOLO TERZO

ČECHOV E LE DONNE, OMNIA CIRCUMSPICERE


I.

Erano già all'incirca le dieci di sera, e in giardino splendeva la luna piena. In casa degli Šumin era appena terminata la funzione del vespro che la nonna Marfa Michàjlovna aveva fatto celebrare, e Nadja, uscita per un momento nel giardino, vedeva che nel salone veniva apparecchiata la tavola per gli antipasti e che nel suo sontuoso abito di seta la nonna era tutta affaccendata; il padre Andrèj, arciprete della cattedrale, stava discorrendo con la madre di Nadja, Nina Ivànovna, la quale ora, nella luce serale, attraverso i vetri della finestra, pareva, chissà perché, molto giovane; accanto a loro stava il figlio dell'ecclesiastico, Andrèj Andreič, e ascoltava attentamente. Nel giardino silenzioso l'aria era fresca e ombre scure e immobili si stendevano sul suolo. Lontano, molto lontano, probabilmente fuori città, si udiva un gracidare di rane. Si sentiva nell'aria il maggio, il caro maggio! Si respirava a pieni polmoni e veniva voglia di pensare che non quaggiù, ma in qualche luogo sotto il cielo, sopra gli alberi, lontano, fuori della città, nei campi e nei boschi, fioriva ora una propria vita primaverile, una vita misteriosa e bellissima, ricca e sacra, inaccessibile all'intendimento, della debole e peccaminosa creatura umana. E veniva voglia, chissà perché, di piangere.
Lei, Nadja, aveva già ventitré anni; fin dai suoi sedici anni aveva appassionatamente sognato il matrimonio, e ora, finalmente, era fidanzata a Andrèj Andreič, quello stesso che ora stava al di là della finestra. Il giovane le piaceva, le nozze erano già fissate per il sette di luglio, e tuttavia Nadja non provava alcuna gioia, di notte dormiva male e la sua allegria d'una volta era scomparsa...
Dal sottosuolo, dove si trovava la cucina, giungevano attraverso la finestra aperta lo scalpiccio affaccendato della servitù, il tintinnio di coltelli, lo sbattere di una porta; veniva l'odore di tacchino arrosto e di ciliegie marinate. E chissà perché, pareva che sarebbe stato così per tutta la vita, senza mutamenti, senza fine! Ecco che qualcuno è uscito dalla casa e si è fermato sulla scalinata; è Aleksàndr Timofeič, o più semplicemente Saša, un ospite arrivato da Mosca dieci giorni fa. Molti anni addietro veniva di tanto in tanto dalla nonna per aver un sussidio una sua lontana parente, Mar'ja Petrovna, una vedova di nobile famiglia, caduta in miseria, una donnetta piccola, magrolina, malata. Aveva un figlio, Saša. Si diceva di lui, chissà perché,  che aveva la stoffa d'un eccellente artista, e quando sua madre morì, la nonna, pensando alla salute della propria anima, lo mandò a Mosca, all'istituto Komissàrovskij; due anni dopo era passato però alla scuola di pittura, dove era rimasto quasi quindici anni, finendovi alla men peggio i corsi di architettura. Ma non si era messo a esercitare la professione di architetto e lavorava invece in una litografia di Mosca. Quasi ogni anno d'estate veniva, gravemente malato, a stare dalla nonna, per riposare e rimettersi in salute. Portava ora una giacca abbottonata e pantaloni di tela, lisi, sfilacciati in fondo. Anche la camicia non era stirata, e tutta la sua figura aveva qualcosa di logoro. Magrissimo, con occhi grandi, con delle dita lunghe e scarne, barbuto e scuro, aveva tuttavia un che di bello. Agli Šumin si era avvezzato come a dei parenti e si sentiva da loro come in casa sua. E la camera dove abitava, durante i suoi soggiorni estivi, già da tempo si chiamava la camera di Saša. Fermatosi sulla scalinata, scorse Nadja e le si avvicinò.
- Si sta bene qui da voi - disse.
- Certo che si sta bene. Dovreste rimanere qui fino all'autunno.
- Già, mi converrà forse far così. Può darsi che mi trattenga qui da voi fino a settembre.
Rise senza motivo e le si sedette accanto.
- Io ecco, me ne sto seduta qui e guardo la mamma - disse Nadja. Vista da qui sembra tanto giovane! La mia mamma, certo, ha le sue debolezze - aggiunse dopo un po' - tuttavia è una donna straordinaria.
- Sì, buona - acconsentì Saša. - La vostra mamma secondo me certo è una donna di cuore, e molto cara, ma ...come devo dirvelo? Stamani presto sono entrato un momento nella vostra cucina, e vedo che le vostre quattro domestiche dormono addirittura sul pavimento, non ci sono letti, e al posto dei letti ci sono dei mucchi di cenci, e un puzzo, cimici, scarafaggi...Tale e quale a vent'anni fa, nessun cambiamento. Bé, la nonna, che Dio l'abbia in pace, è della vecchia generazione; ma la mamma, mi pare, è diversa, parla francese, prende parte agli spettacoli. Certe cose si potrebbero anche capire, direi. Quando parlava, Saša aveva l'abitudine di protendere verso l'interlocutore due dita lunghe, scarne.

domenica 23 giugno 2013

ANTON ČECHOV | IL RACCONTO DELLA SIGNORINA N. N.

Dante Gabriel Rossetti, Lady Lilith, 1866-1868
Il racconto della signorina N. N.
racconto breve,
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]

ČECHOV E LE DONNE, CAPITOLO SECONDO
[Dopo La fortuna d'esser donna, un altro breve racconto di Čechov, un altro tassello dell'indagine sul ruolo della donna nella società, attraverso figure femminili molto diverse fra loro]

Circa nove anni fa, poco prima di sera, al tempo della falciatura, io e Pëtr Sergeič, che faceva le funzioni di giudice istruttore, ci recammo a cavallo alla stazione per ritirare la corrispondenza.
Il tempo era splendido, ma al ritorno si udirono dei brontolii di tuono, e vedemmo una nuvola nera minacciosa che si muoveva diritta verso di noi. La nuvola s'avvicinava a noi mentre noi ci avvicinavamo ad essa. Sullo sfondo biancheggiavano la nostra casa e la chiesa, e luccicavano argentei gli alti pioppi. C'era odore di pioggia e di fieno falciato. Il mio compagno era era in vena. Rideva e diceva una gran quantità di sciocchezze. Diceva che non sarebbe mica stato male se strada facendo ci fossimo imbattuti d'un tratto in un castello medievale dalle torri merlate, ricoperte di muschio, popolato di gufi, perché potessimo ripararci lì dalla pioggia e perché alla fine la folgore ci uccidesse...
Ma ecco che sulla segale e sul campo d'avena corse una prima ondata, si scatenò il vento e nell'aria cominciò a turbinare la polvere. Pëtr Sergeič scoppiò in una risata e spronò il cavallo. 
- Bene! - esclamò. - Benissimo!
Io, contagiata dalla sua allegria, e al pensiero che in pochi istanti mi sarei bagnata fino alle ossa e che potevo essere uccisa dalla folgore, mi misi a ridere anch'io.

martedì 18 giugno 2013

ANTON ČECHOV | LA FORTUNA D'ESSER DONNA

La fortuna d'esser donna
racconto breve,
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]


ČECHOV E LE DONNE, CAPITOLO PRIMO.
[Inauguro così, con questo breve, brevissimo testo, la serie di racconti che Čechov ha dedicato alla riflessione sulla figura femminile]

Si facevano i funerali del tenente generale Zapupyrin. Verso la casa del defunto, dove echeggiava la marcia funebre e risuonavano parole di comando, la gente accorreva da ogni parte, desiderosa di assistere al trasporto del feretro. In uno dei gruppi che accorrevano, si trovavano due impiegati, Probkin e Svistkòv. Tutti e due erano con la moglie. 
- Non si può passare - li fermò un vice commissario di polizia, dal viso buono e simpatico, quand'essi si avvicinarono ai cordoni. - No-on si può! Prego, un pochino più indietro! Signori, non dipende da noi! Prego, indietro! Del resto, e sia, le signore possono passare...prego, mesdames, ma...voi signori, per amor di Dio...
Le mogli di Probkin e di Svistkòv si fecero rosse per l'inattesa amabilità del vice commissario e sgusciarono attraverso i cordoni, ma i mariti rimasero dall'altra parte della barriera vivente a contemplare le schiene delle guardie a piedi e a cavallo.
- Sono passate! - disse Probkin, guardando con invidia, quasi con odio, le donne che si allontanavano. - Hanno fortuna, per Dio, queste gonnelle! Al sesso maschile non saranno mai concessi i privilegi di cui gode il sesso femminile. Ma che c'è in loro di straordinario? Sono donne, si può dire, delle più comuni, piene di pregiudizi, e le hanno lasciate passare; ma io e te, anche se fossimo consiglieri di Stato, per nulla al mondo ci lascerebbero passare. 
- Il vostro modo di ragionare è strano, signori! - disse il vice-commissario, guardando Probkin con aria di rimprovero. - Se vi lasciassero passare, voi comincereste subito a spingere e a far disordine: ma una signora, con la sua finezza, non si permetterà mai nulla di simile!
- Smettetela, per carità! - si irritò Probkin. - Nella folla la donna è sempre la prima a spingere. L'uomo sta fermo e gurada in un punto, ma la donna lavora di gomiti e spinge perché non le sciupino le vesti. Non c'è che dire! Il sesso femminile ha sempre fortuna in tutto. Le donne non vanno a fare il soldato, partecipano gratuitamente alle serate danzanti e sono esenti dalle pene corporali...E per quali meriti, domando io? Una signorina lascia cadere un fazzoletto e tu glielo raccogli; lei entra e tu ti alzi e le cedi la tua sedia; esce, tu l'accompagni...E prendete i titoli! Per giungere, mettiamo, a consigliere di Stato, tu ed io dobbiamo sgobbare tutta la vita, ma una ragazza in quattro e quattr'otto si sposa con un consigliere di Stato: ecco che è già una personalità. Perché io sia fatto principe o conte è necessario che conquisti il mondo, prenda una città ai Turchi, diventi ministro; ma una qualsiasi, che Dio mi perdoni, Vàren'ka o Kàten'ka, con ancora il latte sulle labbra, fa la ruota davanti a un conte, strizza gli occhiettini, ed eccola sua altezza...Tu sei ora segretario provinciale...Questo grado, si può dire, te lo sei guadagnato con sudore e sangue; ma la tua Mar'ja Fomišna? per qual ragione è segretaria provinciale? da figlia di pope, è diventata direttamente funzionaria! Bella funzionaria! Dàlle da fare il nostro lavoro e lei ti scriverà le entrate al posto delle uscite.
- Però la donna partorisce i figli con dolore - osservò Svistkòv.

domenica 16 giugno 2013

ALICE



 











ALICE | Cortometraggio [4:46]
di Raffaele Carro
con Chiara Tringali e Luca Basilico
ProduzioniAmenic 2012
Musiche di Brokenkites Jotun

fb: ProduzioniAmenic



 ❝ DIPENDE MOLTO DA DOVE VUOI ANDARE ❞ DISSE IL GATTO

La piccola Alice di Lewis Carroll è diventata adulta, son passati tanti anni ormai dalla sua prima apparizione. La ritroviamo nel pregevole cortometraggio del regista Raffaele Carro, Alice, appunto, e quasi stentiamo a riconoscerla: non è soltanto cresciuta, è ancora bella, certo, ma ha totalmente perso la sua innocenza, cambiato il suo temperamento. Tuttavia qui, benché ci piacerebbe tanto, non stiamo parlando di una persona in carne ed ossa, bensì di un fantasma che appare e scompare nello sconfinato mondo dell'arte, della letteratura, del cinema. Il plot di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol è diventato un vero e proprio archetipo, l'antesignano del viaggio psichedelico contemporaneo e metafora dell'invenzione del cinema. Dentro quell'avventura straordinaria puoi trovare di tutto: il percorso di formazione e di crescita dell'eroe in crisi, i poteri magici dell'arte e della letteratura, i rischi della curiosità, la discesa agli inferi, le sconfinate possibilità dell'intelletto di trovare soluzioni agli ostacoli, la lotta contro il male, l'importanza dell'amicizia, il labile confine tra bene e male, verità e menzogna, il capovolgimento dei ruoli tra inconscio e realtà, le metamorfosi dell'individuo a contatto con l'ambiente circostante, l'apprendimento del diverso e il recupero del valore della propria realtà; stiamo parlando [maybe] della sintesi dell'intero sistema di miti che ha alimentato l'immaginario degli uomini nei secoli.
Alice si addormenta facendo saltare il tappo del vaso di Pandora. Il punto di partenza è per l'Alice di Carrol un "libro senza figure e senza dialoghi", l'insofferenza verso una realtà priva di immaginazione. Era il 1865, il cinema non esisteva e la società mediatica era un embrione nella mente degli scrittori di fantascienza. La discesa agli inferi di una bambina di 7 anni assume una connotazione estraniante che mira necessariamente al ritrovamento delle certezze, allo scioglimento degli enigmi di quel mondo di pazzi, strambo, surreale, pericoloso.
Nel cortometraggio Alice di Raffaele Carro la concretezza della realtà non è minimamente intaccata dagli enigmi che la nostra protagonista, non più bambina, incontra sulla sua strada. Il punto di partenza per l'Alice interpretata da Chiara Tringali è una pillola rossa: il viaggio ha inizio, la realtà è un'allucinazione, un trip psichedelico attraverso la solitudine dello spazio metropolitano supportato dal ritmo sincopato della colonna sonora. L'apparizione del coniglio [terrificante quanto i Rabbits di David Lynch] del cappellaio, della regina di carte sono inquietudini metafisiche alle quali quotidianamente la realtà contemporanea sottopone l'individuo post-moderno. L'Alice di Carroll viene inghiottita da un pozzo senza ritorno e l'uscita dovrà essere conquistata attraverso un percorso di risalita verso il basso in balia del caso. Qui, invece, il viaggio è una conquista consapevole dello spazio non edificato dove ogni passo avanti di Alice, dritto, orizzontale, fiero, segna il tracciato di un progresso che risiede nella rilettura del passato [individuabile nello scheletro dell'acquedotto romano] e nell'edificazione creativa del presente e del futuro.
Alice oggi è l'indivuduo inquieto e ricercatore che attraversa lo spazio e i suoi pericoli con coraggio perché il suo cammino è dettato da una precisa volontà e non alla pura legge del caso. 
L'inferno e il paradiso sono categorie concrete della quotidianità e l'assurdo, il grottesco, l'immaginifico iper-presenti nella società mediatica: pertanto quel viaggio oggi non avrebbe luogo perché dove c'era un "libro senza dialoghi e figure" c'è l'immagine ossessiva ed estraniente proiettata su uno schermo. [Mi diresti per favore che strada devo prendere per andarmene da qui? disse Alice. Dipende molto da dove vuoi andare, disse il gatto.]
Il corto lo trovate qui e qui.




domenica 9 giugno 2013

NEL SEGNO DELLA PECORA | MURAKAMI


ALLA RICERCA DI UN SENSO
Nel segno della pecora (titolo originale: (羊をめぐる冒険 Hitsuji wo meguru bōken) 1982
di Haruki Murakami (Kyoto, 12 gennaio 1949)
Pubblicato in Italia da Longanesi & Co nel 1992, e da Einaudi nel 2010.

A volte ho l'impressione di essere diventato il custode di un museo. Un museo vuoto, senza visitatori, 
a cui faccio la
guardia solo per me



Un pubblicitario abbandonato dalla moglie e insofferente al proprio lavoro con un socio alcolizzato incontra una ragazza che cerca se stessa facendo sesso con tutti gli uomini che incontra [o quasi], un estremista di destra, un tipo losco con la cravatta e una donna con delle orecchie bellissime. La sua è una vita stramba vissuta senza consapevolezza dove tutto accade sopra la sua testa. Davanti a lui c'è soltanto una nebbia grigia. Ma un bel giorno si ritrova ad avere una missione: trovare una pecora; unico indizio: una macchia a forma di stella sulla schiena. Non ha molto senso e in fondo non è neanche una vera missione, probabilmente è solo un sogno di quelli che ti porti a letto per un po' di notti senza sapere quando è iniziato o dove ti porterà, ma che abbracci tra le lenzuola con avidità sapendo che bene o male prima o poi potrai venirne a capo, ma anche no. Tutto è assurdo, surreale, ma possibile. Vuole sapere che cos'è questa pecora, vuole capire che cosa sta cercando. Si sa che la nostra pecora è incostante perché entra nelle persone condizionandone l'esistenza, fornendo una direzione e una condotta e poi le abbandona, lasciandogli dentro un vuoto incolmabile. La pecora [maybe] è il senso dell'esistenza che qualcuno ha avuto la fortuna di cogliere o di possedere. Per tutte gli altri l'unica strada possibile è nella ricerca del senso, ricerca che non mira ad un esito positivo, ma soltanto ad alimentare quell'insoddisfazione perennemente da soddisfare.

Questo lo spirito con cui leggere il suo nuovo romanzo 1Q84, mille pagine, 3 volumi.




sabato 8 giugno 2013

L'AVVELENATA



Riri J.*




















A tutti voi cilentani che non siete mai stanchi di ripetere che amate la vostra terra, vorrei ricordare che la terra dovrebbe stare sotto i vostri piedi, tra le pieghe delle vostre scarpe, non nelle vostre teste. Io disprezzo il vostro attaccamento al territorio, quando questo significa essere attaccati alle sue risorse da spartire, o riempirsi la bocca di grandi azioni. Il vostro amore è quello che esprimete quando buttate l'immondizia sui cigli delle strade, quando guardate dall'alto in basso chiunque non sia nelle vostre squallide cerchie di amici d'interesse, perché tu dai una cosa a me ed io ne do una a te. Il vostro amore è quello che esprimete ogni volta che dite la parola "popolare" pensando che si tratti di un partito che continuate a votare da 60 anni. Il vostro amore è quello che esprimete quando appiccate 10 incendi al giorno per tre mesi, quando fate finta di non vedere gli eco mostri che spuntato sotto i vostri piedi, le strade dismesse, le vostre risorse inghiottite dai rovi. Odio le vostre melanzane 'mbuttunate, i vostri disgustosi dolci con miele industriale, le vostre sagre kitsch, le vostre allegre tavolate coi bicchieri di plastica, le vostre donne con le zeppe smaltate che ballano la tarantella, i vostri uomini sempre in pantofole, i vostri figli house con le magliette bianche e la gelatina, i vostri bar col karaoke, le vostre auto lucidate, le vostre foto in posa, i vostri matrimoni di lustrini, colombe, carrozze e buste piene di soldi. Odio il vostro razzismo buonista "perché è peccato", le vostre famiglie sfasciate da uomini in fuga con le straniere, l'intrigo da soap opera, la spettacolarizzazione della vostra mediocrità, i vostri debiti per organizzare banchetti per il battesimo e la prima comunione. Odio il vostro parlare pieno di supponenza, le vostre mode vuote, i vostri tormentoni religiosi e politici, il falso moralismo, le statue di padre Pio negli angoli delle piazze, quelle vostre gite nella dorata San Giovanni Rotondo. Odio il vostro essere nello stesso tempo fuori e al di sopra del tempo, l'autoelezione ad eletti e condannati, i vostri politici troppo scadenti per essere davvero corrotti, odio quell'indifferenza indistinta, e l'adorazione smisurata, la vostra incapacità di trovare un'identità comune che non sia quella effimera ed esule di infantili protagonismi e di interessi personali spacciati per idealità. Vi disprezzo per le vostre opinioni fotocopia e per le vostre tuttologie, la cosa che in effetti sapete fare meglio. Le vostre teste alte sono assolutamente fuori luogo.

Serena Di Sevo

*Riri J. è l'unica paternità / proprietà che sono riuscita ad attribuire a questa immagine. Qualsiasi segnalazione o correzione sarà la benvenuta.