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mercoledì 20 novembre 2013

ORAZIO | UN TRONCO DI FICO | SATIRA VIII

Cy Twombly, Orazio from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1975



[Quinto Orazio Flacco nacque a Venosa tra l'Apulia e la Lucania, l'8 dicembre del 65 a.C.; nel 35 terminò il primo libro delle Satire. Mecenate a cui il primo libro è dedicato, regalò al poeta una villa in Sabina, dove egli potesse ritirarsi a riposare, a studiare e a scrivere, lontano dalla vita caotica di Roma. Le Satire sono un teatro, uno spettacolo di arte varia dove compaiono personaggi surreali, filosofi spennacchiati, ballerine, anfitrioni maleducati e gastronomi pedanti raccontati con un tono basso e volgare, ironico e comico, ma classico]

La satira delle streghe, l'ottava del primo libro, è un racconto in prima persona di Priapo [il dio della fertilità, noto, prima di John Holmes, per le dimensione del suo pene] ovvero dell'erma di legno che rozzamente lo raffigurava e che veniva piantata negli orti e nei campi per spaventare gli uccelli e e i ladri. Orazio narra di come Priapo mise in fuga le due streghe Canidia e Sagana intente a richiamare gli spiriti infernali con un rituale così spaventoso che persino la luna cerca di nascondersi per non vedere tanto orrore. Il luogo è la zona dell'Esquilino, dove un tempo era il cimitero dei poveri; Mecenate l'aveva risanata, trasformandola in parco pubblico. Una pittura espressionista, con la notte popolata di cagne e di serpenti, voci di morti, vecchie pallide e funeree che mordono a sangue l'agnella del sacrificio. Un tuono travolge le donne in una frenetica fuga: non è un intervento dall'alto, solo la madornale scorreggia di Priapo di legno messo a guardia del campo.

Ero una volta un tronco di fico, legno buono a niente, e il falegname, incerto se fare di me uno scanno o un Priapo, mi volle dio. E un dio io sono, grande spaventapasseri e spaventaladri: i ladri li tiene a bada la mia mano e il palo rosso che sporge oscenamente dall'inguine; gli uccelli importuni, li atterrisce una canna legata sulla mia testa, impedendo che si posino sugli orti novelli. Qui prima d'ora i servi portavano a seppellire in rozze bare i cadaveri gettati fuori dalle loro celle anguste; qui era la fossa comune della plebe più misera; per Pantolabo il buffone e Nomentano lo sperperatore, un cippo assegnava mille piedi sul davanti e trecento verso la campagna e stabiliva che il sepolcro fosse escluso dall'eredità. Ora l'Esquilino è risanato, ci si può abitare, si può passeggiare sul soleggiato terrapieno, da dove un tempo si guardava con sgomento la campagna incolta e bianca di ossa; e a me non danno tanto da fare i ladri e le bestie, che di solito affliggono il luogo, quanto quelle tali donne che stravolgono le menti degli uomini con incantesimi e veleni. Non ho modo di distruggerle né d'impedire che, appena la luna errante mostra la sua faccia luminosa, raccolgano erbe velenose e ossa.
Io stesso ho visto Canidia, rimboccata la nera veste, vagare ululando, scalza, con i capelli sciolti, insieme con la più anziana Sagana: il pallore le aveva rese entrambe orride a vedersi. Si misero a scavare la terra con le unghie e a lacerare a morsi un'agnella nera; il sangue lo versarono nello scavo per farne sorgere le anime dei Mani a dare responsi. C'era un fantoccio di pezza e uno di cera; più grande era quello di pezza, che doveva infliggere il castigo all'altro, che gli stava sotto; quello di cera era in atto di supplice, rassegnato a morire al modo degli schiavi. Una invoca Ecate, l'altra la spietata Tesifone; avresti visto vagare serpenti e cagne infernali, la luna rossastra nascondersi dietro i grandi sepolcri per non essere testimone di questi orrori. Se dico bugia, mi sporchino il capo i bianchi escrementi dei corvi, vengano a pisciarmi e a cacarmi addosso Giulio, la gracile Pediazia e il ladro Vorano.
Come racconterò punto per punto in che modo le ombre, scambiando parole con Sagana, fecero risuonare voci tristi e acute; come quelle due nascosero caute sottoterra una barba di lupo col dente di u serpe multicolore e divampò più alta la fiamma quando bruciò il pupazzo di cera e come mi vendicai di aver assistito, rabbrividendo, ai detti e ai fatti di quelle due furie? Pur fatto di fico, scorreggiai dallo spacco delle natiche con lo strepito di una vescica che scoppia; e quelle vie di corsa verso la città. Avresti riso a lungo e ti saresti divertito al mio scherzo, vedendo la dentiera di Canidia e la gonfia parrucca di Sagana cadere per terra e così le erbe e i nodi magici delle braccia.

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