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sabato 14 dicembre 2013

LA DIFFICILE ARTE DEL MORIRE


Capitolo I. #Donnacce

Il libro di Francesca Serra, La morte ci fa belle, di cui ho parlato qui non è destinato ad esaurirsi nella mia mente. Perché ripeto, apre una serie di spunti interessanti per andare a fondo del problema chiacchieratissimo della morte al femminile, degli uomini che ammazzano le donne. Un problema sviscerato nel libro attraverso una schizofrenica catalogazione della donna/sposa/vecchia/puttana cadavere nella storia dell'arte e della letteratura. Un mito fondatore della cultura odierna. Una cultura asfittica e aggrinzita se privata di quello stesso mito, un basamento/catapulta della cultura del maschio. 
Il libro offre una galleria di esempi letterari brevissimi, una bottega di anticaglie tra cui è possibile trovare di tutto e di tutte le epoche, un libro che impone una revisione più distesa dei testi citati, un libro che invoglia e entusiasma a riprendere in mano vecchi libri dimenticati, ricordi più o meno coscienti di letture bambine (I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift)  cose che non abbiamo letto e che forse non leggeremo mai (Paul e Virginie di Bernardin de Saint-Pierre) cose che assolutamente dobbiamo leggere (Mago sabbiolino di Hoffmann e Lo scarabeo d'oro di Poe) cose curiose (Di diavol vecchia femmina ha natura di Franco Sacchetti) cose che giacciano nel cassetto della nostra formazione e che pensavamo di aver digerito completamente (Decameron di Giovanni Boccaccio). Qui scopriamo che Boccaccio non è l'inventore di storie esemplari del riscatto femminile, ma il regista della più grande delle rappresentazioni ammonitrici per donne capricciose e indisposte ad offrirsi al desiderio maschio.
Ripartiamo da qui. Da Nastaglio degli Onesti.




Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non men di compassion piena che dilettevole. 

In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d’uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l’aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono.

domenica 8 dicembre 2013

LA FEBBRE DEL SABATO SERA LISERGICO


[Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia...]
Nessuno ha voglia di sentir parlare di un passato migliore e sentir ripetere che prima si stava meglio, nessuno ha voglia di mettersi a fare l'ennesima discussione sulla validità del sentimento della nostalgia e sulla realtà di un'umanità contaminata dai vizi del progresso. Chiunque si sparerebbe in testa piuttosto che subire l'eterna lezione sulla saggezza degli antichi. Che poi chi sono questi antichi nessuno lo sa, misteriosi come sono, avvolti dalla fitta nebbia della leggenda. Eppure questi antichi hanno da insegnarci tutta una serie di vantaggi sullo stile di vita antico. Capostipite di questi vantaggi è il sentimento del sabato, il giorno di Saturno, il giorno del riposo, il giorno dell'astensione dal lavoro. Il sabato come apoteosi della speranza, il sentimento cristiano dell'attesa che non disdegna un certo godimento dei risultati. Speranza e godimento sono per eccellenza i sentimenti contrari all'oggi, un luogo abitato da cinici, disoccupati, disillusi e arrabbiati, creature intrappolate in un'eterna domenica.
Il sabato, quell'attimo di luce riflessa che acceca e ubriaca, è sabato perché intorno a noi è sabato.
C'è qualcuno della tua cerchia, un isolato, che puoi vedere soltanto di sabato, perché lavora [shhh]. C'è un paese intorno che dice che la domenica è il giorno del Signore e la mattina bisogna andare in Chiesa, magari [shhh] a pregare per essere iscritti alla lista d'attesa per il miracolo, il lavoro retribuito. Il sabato è sabato perché è un'ottima scusa per bere, bere come se non ci fosse un domani in cui dire /io non bevo più/. I risultati sono sempre disastrosi. Uscire con l'amico occupato scatena sulla nostra auto-stima una serie di conseguenze a catena difficili da fermare, perché tu che sei un disoccupato con molto tempo libero a disposizione, ti ritrovi a osservare l'aulica perfezione fisica e il brillante accostamento di colori dei suoi vestiti, mentre tu...tu fai pendant con lo sciatto paesaggio alluvionato. Per finire a contare le ore del giorno, chiedendoti come ha fatto ad andare in palestra, dal dentista, dall'estetista, a trovare l'amica che ha partorito, a prendere un caffè con un vecchio compagno di scuola, per vedere l'ultimo film di Tarantino, conoscere la programmazione di Fuori Orario e sapere cosa sta succedendo in Siria, così finisci per chiedergli se per caso non sappia anche cosa hai fatto tu tutta la settimana e qualche consiglio per la prossima /chi hai detto che è il tuo parrucchiere? Ma tanto non lo ricorderai. Nel tuo sabato non c'è speranza né godimento, perché è la domenica il tuo giorno, quello della disillusione, dei postumi, del rinnovato fallimento del proposito di fare qualcosa di domenicale, il giorno della discesa del Signore. Triste triste domenica, questa volta corredata da un difficile lunedì. #Renzi.

venerdì 6 dicembre 2013

UN LETTORE | JORGE LUIS BORGES

Daniel Mordzinski



Un lettore
da Elogio dell'ombra (titolo originale Elogio de la sombra) 1969

Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte; 
me mi fanno orgoglio quelle lette.
Non sarò stato un filologo,
non avrò investigato le declinazioni, i modi, il laborioso 
mutare delle lettere,
la d che indurisce in t,
l'equivalenza della g e della k,
ma nel corso degli anni ho professato
la passione della lingua.
Le mie notti son piene di Virgilio;
aver saputo e scordato il latino
è possederlo, perché anche l'oblio
è una forma della memoria, la sua vaga cava,
l'altra faccia segreta della moneta.
Quando si cancellarono ai miei occhi
le vane apparenze che amavo,
i volti e la pagina,
mi detti allo studio del linguaggio di ferro
che usarono i miei antichi per cantare
solitudini e spade,
e ora, attraversando sette secoli,
dall'Ultima Thule,
la tua voce mi giunge, Snorri Sturluson.
Dinanzi al libro, il giovane s'impone una disciplina precisa
e lo fa in vista di un preciso conoscere;
ai miei anni ogni impresa è un'avventura
il cui confine è la notte.
Non finirò di decifrare le antiche lingue del Nord,
non tufferò le mani ansiose nell'oro di Sigurd;
il compito cui attendo è illimitato
e dovrà accompagnarmi fino all'ultimo,
non meno misterioso dell'universo
e di me, l'apprendista.

IL LABIRINTO | JORGE LUIS BORGES

Santiago Uceda, Jorge Luis Borges


IL LABIRINTO
da Elogio dell'ombra (titolo originale Elogio de la sombra) 1969

Zeus non potrebbe sciogliere le reti
di pietra che mi stringono. Ho scordato
gli uomini che fui; seguo l'odiato
sentiero di monotone pareti
ch'è il mio destino. Dritte gallerie
che si curvano in circoli segreti,
passati che sian gli anni. Parapetti
in cui l'uso dei giorni ha aperto crepe.
Nella pallida polvere decifro
orme temute. L'aria m'ha recato
nei concavi crepuscoli un bramito
o l'eco d'un bramito desolato.
Nell'ombra un Altro so, di cui la sorte
è stancare le lunghe solitudini
che intessono e disfano questo Ade
e bramare il mio sangue, la mia morte.
Ciascuno cerca l'altro. Fosse almeno
questo l'ultimo giorno dell'attesa.