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giovedì 30 luglio 2009

DIETRO LE QUINTE: LA SCRITTURA ASSENTE

La sceneggiatura.

Uno dei più bizzarri aspetti del Cinema è il ruolo che occupa la sceneggiatura nella complessa e composita costruzione del suo "prodotto" finale: il film. La sceneggiatura è il luogo in cui si suda e si immagina il film: accartocciata, stropicciata, cestinata o dimenticata, ignorata, uccisa dal suo stesso figlio (il film) ha tuttavia un ruolo essenziale e, naturalmente, frustrato. La beffa risiede nella sua natura fantasmatica: la stesura di una sceneggiatura ha ontologicamente una natura letteraria, essa è scrittura, ma assente; una scrittura che scompare vaporizzandosi in immagine, concretizzandosi come idea visiva/oggetto riflesso. La sceneggiatura è l'antitesi del testo letterario, in quanto questo agisce partendo dall'osservazione della realtà, modificandone l'immagine "vista" in immagine "raccontata"; la sceneggiatura, al contrario, prevede la modificazione del racconto in visione. Questione spinosa e affascinante che rimanda alla natura spugnosa del cinema, alla sua capacità di appropriarsi di tutti gli strumenti tradizionali dell'arte, ma rivoluzionandoli e stravolgendoli.
Rimando a un passo di un testo fondamentale sull'argomento di F. Vanoye.

La sceneggiatura, oggetto «cattivo»
da: La sceneggiatura, forme dispositivi modelli di Francis Vanoye.

Oggetto cattivo. perché transitorio, privo di futuro, oggetto «né...né».Tra letteratura e cinema, la sceneggiatura non è scritta. Non è il luogo di un'elaborazione della scrittura come possono esserlo il romanzo o il teatro: le descrizioni e i ritratti esistono soltanto come informazioni necessarie, le considerazioni riflessive sono bandite, lo stile narrativo è al grado zero.
[...] Ma la sceneggiatua non è neppure un film: non comporta vere immagini, veri effetti di montaggio percettibili, per non parlare del suono e della voce...
Transitoria, «struttura che vuole essere un'altra struttura», diceva Pasolini, la sceneggiatura «non è costruita per durare, ma per cancellarsi, per diventare altro». La sceneggiatura viene letta nella prospettiva immaginaria del film. Si inserisce in un percorso, in un processo a più fasi, in una catena di scrittura e di riscrittura di un racconto che ende al film come obiettivo ultimo. Ha un'esistenza e una funzione essenzialmente pratiche. Il più delle volte non viene pubblicata.
[...] Molti cineasti negano l'importanza della sceneggiatura o la specificità della sceneggiatura. Eric Rohmer dice di scrivere storie fine a se stesse, che poi regolarmente si rivelano filmabili; ma lui non scrive sceneggiature...Ma che cosa è una «storia filmabile», se non precisamente una sceneggiatura?
Scritta a catena, collettivamente o individualmente, a lungo preparata o semimprovvisata, intoccabile o aggiornata in continuazione, la seneggiatura costituisce un insieme di proposizioni per l'elaborazione di un racconto cinematografico, proposizioni che entrano in interazioni con le operazioni di ripresa, di montaggio-missaggio ecc. Essa interviene a livello dei contenuti, dei dispositivi narrativi, delle strutture drammatiche, della dinamica e del profilo sequenziali e infine dei dialoghi. In tal senso partecipa della messa in scena, senza negare, evidentemente, l'apporto decisivo, eventualmente conflittuale o contraddittorio, degli elementi di messa in scena relativi alle riprese e al montaggio: Truffaut non parlava di girare contro la sceneggiatura, di montare contro le riprese?
Anche in questo senso, la sceneggiatura è un modello. Modello in senso, o in funzione, strumentale. In qualche modo, la sceneggiatura è il modello del film che deve essere realizzato.
È la base, il referente, il termine medio tra il progetto (il fantasma?) e la sua realizzazione. Raffigura astrattamente il film e lo determina concretamente: è un bozzetto; come tale, riproduce certe proprietà del film ma in un altro linguaggio e secondo un'altra scala



venerdì 10 luglio 2009

OSSESSIONE


"PREMESSA FILOSOFICA A MO' DI SCUSA".

Riprendo dall'inizio la parabola di Visconti e il mio sorprendente interesse attuale per questo regista "rifiutato", autore incomprensibile agli occhi di una ragazza cresciuta negli anni 80 del 1900, nell'esasperazione del gusto thash/pop, inconciliabile con mie ignoranze che vanno ben oltre la conoscenza della Storia, troppo cupe per essere qui elencate. Da un'occhiatina sprezzante dei tempi del liceo, a uno sguardo annoiato (ricordo la visione/sogno di Senso, in un letto napoletano a via Tarsia; se non ricordo male dormivo!) passando per un periodo di oblio, attraverso l'assuefazione al suono del suo nome "Visconti", come un soprammobile eterno a cui nessuno più fa caso. Ora, sebbene ancora distante da una comprensione "totale" e profonda (a onor del vero neanche decente), consapevole dell'impossibilità di parlare di Visconti senza cadere nella banalità e nell'ovvio, mi trovo a vivere l'inizio di una storia d'amore appassionante, in cui galeotto fu Ossessione.

OSSESSIONE
Luchino Visconti, 1943

Il vagabondo Gino (Massimo Girotti) si ferma per un pasto nella trattoria "Ex dogana" dove incontra Giovanna (Clara Calamai), la moglie del vecchio e grasso proprietario. Travolto dalla sua passione, dalla sua disperazione, Gino rimane imbrigliato nell'ambiguo quadretto familiare: la donna, per impedire a Gino di ripartire, finge che l'uomo non abbia pagato il conto, in questo modo Gino è costretto a saldare il suo debito lavorando per qualche giorno alla trattoria.
La storia d'amore tra Gino e Giovanna diventa immediatamente "ossessiva", imposssibile da gestire: Gino vorrebbe che Giovanna lo seguisse per costruire insieme una vita altrove, lontano dalla finzione, dallo sporco gioco alle spalle del vecchio bonaccione. Ma i piani di Giovanna sembrano altri, così Gino decide di ripartire. La sua esistenza è stata tuttavia già segnata, la sua ossessione per Giovanna è una strada senza uscita. Quando, non molto tempo dopo, si rincontrano casualmente, la donna lo convince a compiere un gesto estemo: uccidere il vecchio inscenando un finto incidente automobilistico.
Ora Les amants diaboliques sono liberi di vivere la loro passione, ma qualcosa va storto, evidentemente l'ossessione è destinata a non esaurirsi: le indagini sull'incidente avanzano, i testimoni raccontano, gli amanti fuggono, la polizia incalza, un incidente...

Il dramma è realizzato con la mediazione di un'opera letteraria: Il postino suona sempre due volte di James Cain e sulla base di una sceneggiatura ben solida: il personaggio/ virus che si insinua in una situazione precedentemente felice, sconvolgendola [questo tipo di struttura è stata spesso utilizzata per sperimentare gli effetti virali della collocazione di un personaggio fuori dagli schemi in un ambiente borghese (Teorema di Pasolini)]. La figura del vagabondo è funzionale alla messinscena della dialettica sociale, di un certa perversione della classe borghese per gli spiantati; l'ipocrisia della famiglia e i meccanismi che ne regolano la costruzione o la decostruzione: la femme Giovanna rienta nella più pura misoginia decadente, mortifera, calcolatrice, dominata da un attaccamento al denaro, è sposa per un'esigenza di scalata sociale ed è amante per interesse, i suoi pensieri/ movimenti sono dominati suo malgrado da un istinto di ordine pratico, da un'assenza di emotività agghiacciante.

Seguendo un percorso storiografico di lunga durata, Visconti realizza un primo e non solo abbozzato progetto di realismo cinematografico a lungo prospettato, ma a lungo rimandato dalle resistenze del regime fascista, dall'esigenza di autorappresentazione celebrativa e propagandistica; egli pone il primo mattone del grandissimo palazzo che dovrà essere costruito, "la cometa che annuncia tempi nuovi" (Brunetta) per il cinema, la svolta dello sguardo con cui l'Italia guarderà a se stessa: il Neorealismo.

"Con i suoi squarci di paesaggio che palpitano di una vita ora indipendente ora in simbiosi con il dramma di Gino e Giovanna - dice Brunetta - il film sconcerta il pubblico in quanto lo sguardo del regista ha una tale forza che, quasi per effetto di sinestesia, moltiplica e dilata i suoni provenienti da sfondi tadizionalmente inerti e silenziosi e li trasforma in un urlo di inaudita violenza".

☞postilla
Girato a Ferrara il film fu in fase di ripresa, vissuto/ visionato dagli occhi inesperti di un giovane futuro cineasta italiano, Florestano Vancini, il quale confessa l'importanza di quell'esperienza per la nascita della sua vocazione cinematografica:

Nel 42, quando fu girato Ossessione, la città era deserta. [...] Intorno alla troupe diretta da Visconti c'era una certa curiosità iniziale, che si spense progressivamente. La delusione era legata in gran parte al modo in cui si svolgevano le riprese del film. Io stesso ero perplesso, mi chiedevo se il cinema si facesse così. Non comprendevo perché una scena che a me sembrava sembrava andasse bene, per il regista fosse completamente da rifare. Ci sembrava che quelli della troupe passassero giorni interi a ripetere sempre lo stesso movimento: vedevamo una donna seduta su una panchina, intenta a fare i ferri, le cade il rotolo, in seguito arriva una bambina...Tutta la mattina a fare sempre la stessa cosa, e mai una volta che Visconti fosse soddisfatto.
Così a Ferrara si sperse la voce che fossero degli incapaci. Nell'idea popolare il cinema era qualcosa di magico, capace di incantare lo spettatore: la perfezione assoluta. [...] L'idea che alla base di un film ci fosse quello che vedevamo sul set di Visconti era per certi versi, difficile da accettare. [V. Napolitano, Florestano Vancini, Intervista a un maestro del cinema, Napoli, Liguori 2008.]

lunedì 6 luglio 2009

Metablog: un blog passatista?

Riflettendo su un senso possibile, una direzione da dare a queste pagine "briganti" (senza professioni di falsa modestia, senza nascondere il punto di riferimento essenziale per ogni mia crescita stilistica e metodologica, sradico e mi approprio di un atteggiamento pasoliniano, contestualizzandolo però nella mia terra) realizzavo un fatto apparentemente sconcertante: i film che vedo, i film di cui scrivo, evidentemente non superano i primi sessanta anni di età del cinema!
Non era certo con tale approccio programmatico che ho iniziato la mia ricerca, disprezzo il cinema contemporaneo, ma prendo coscienza di questo fatto soltanto ora. In effetti la mia posizione risulta piuttosto isolata (probabilmente malata, volendo ossessiva): guardando, navigando tra i blog - non intendo certo generalizzare ma costruisco semplicemente il discorso sulle mie conoscenze attuali - traggo l'impressione di una malattia per il contemporaneo, uno sguardo presbite (contro il mio ipermetrope?) - che vede tutto (ma proprio tutto, senza scarti, senza scelte), ma nei limiti temporali di una settimana, un mese al massimo. Lo stesso dicasi ovviamente (come causa o come conseguenza) dei gusti del pubblico.
Ora mi chiedo, questi critici, anche ambiziosi, su quali basi fondano la propria ricerca e la propria essenza di esperti, senza la gavetta dei "padri"? Con quale criterio selezionano un'opera? Ha veramente senso scrivere una recensione di storie su una notte al museo o una vacanza alle Antille? Qual'è la funzione che attribuiscono all'azione dello scrivere? E se ho torto, perché ho torto, a giudicare il cinema come qualcosa di alto, di misterioso, una continua indagine nella storia della nostra epoca, ho anche ragione a tentare di sconfiggere il principio di cinismo che la storia ci richiede: la condanna di superficialità, di non catalogabilità del cinema nella rosa delle arti, come fatto essenziale della cultura della nostra epoca non può e non deve essere perseguito, non se questo avviene sulla scorta di giudizi basati su film, non su opere. Tale pretesa di giudicare il Cinema sulla base di un criterio cumulativo è concettualmente sbagliata. Che senso avrebbe in pratica parlare di letteratura, fondando un discorso critico sulla base di opere come le barzellette di "un calciatore" o il codice "Leonardo" le quali a mio parere non sono ascrivibili alla Letteratura ma al mercato della carta stampata. Analogamente che senso avrebbe parlare di Letteratura oggi, senza gettare mai un occhio ai classici di ieri?
E infine un momento di autocritica: l'interesse per il passato non può essere un fine feticistico, ma uno slancio, il fondamento per la comprensione del presente.

To be continued....