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sabato 29 giugno 2013

BORIS VIAN | L'ASSASSINO


L'assassino [pubblicato per la prima volta in Dans le train num. 17, dicembre 1949, e in Italia in L'Unità 21 marzo 1988]
di Boris Vian [10 marzo 1920, Ville-d'Avray, Francia | 23 giugno 1959, Parigi, Francia]
racconto breve

Perché Caino ammazzò Abele
Era una prigione come un'altra, una baracca d'argilla e paglia dipinta di giallo cucuzza, con camino impudico
e tetto di foglie d'asparago. Questo accadeva da qualche parte nei tempi antichi, c'era sparso attorno un sacco di ciottoli e conchiglie di ammoniti, trilobiti e compagnia bella, residui dell'era glaciale. Nella prigione, si sentiva russare in giavanese, a strappi. Entrai. Un uomo giaceva sul tavolaccio, addormentato. Indossava delle mutande blu e ginocchiere di lana. 
- Oéoéoéoé gli gridai nell'orecchio. Avrei potuto gridare qualche altra cosa, direte voi, ma tanto dormiva e non sentiva. Quel grido, tuttavia, lo ridestò. 
- Arrgrr! fece per schiarirsi la gola. 
- Chi è quel rimbambito che ha aperto la porta? - Io dissi. Evidentemente, ciò non gli piaceva granché, ma non sperate di saperne di più neanche voi. 
- Dal momento che confessa, osservò, vuol dire che è colpevole.
- Ma anche lei lo è, replicai, o non sarebbe in prigione.
Difficile opporsi alla mia logica dialettica assolutamente diabolica. In quel momento, per giunta, una cornacchia bianca e rossa entrò dal lucernaio e fece sette volte il giro della cella. Rivolò via quasi subito e mi domando ancora, dieci anni dopo, se la sua comparsa avesse un senso. L'uomo, ammansito, mi guardò e scosse il capo.
- Mi chiamo Caino, disse
- Piacere
- Suppongo lei voglia chiedermi perché ho ammazzato Abele.
- Beh, detto fra noi, la versione dei giornali mi sembra alquanto sospetta.
- Son tutti uguali, tutti bugiardi e cacca del genere. Racconti loro le cose, non capiscono un tubo, e oltretutto si rileggono male perché scrivono come maiali. Mettici pure sopra il redattore-capo e i tipografi e vedrai che bel risultato.
- Veniamo ai fatti. la verità sull'affare.
- Abele? chiese Caino. Era una schifosa.
- Una? mi sorpresi io.
- Una, una. E allora? La scandalizza forse? Vuol fare anche lei il Paul Claudel e venirmi a dire che ignorava le tendenze di Gide dopo aver corrisposto con lui quarant'anni?
- E per questo dunque, domandai, che Gide ha ottenuto il premio Nobel?
- Bravo, disse Caino. Ma adesso le racconto.
- Non rischiamo che il guardiano c'interrompa?
- Macché! Sa bene che non ho nessuna voglia d'andarmene. Che farei fuori? È pieno dovunque di froci.
- Ah, questo è vero, dissi.
- Dunque, riprese Caino stendendosi comodamente sul giaciglio di legno duro, ciò succedeva ai tempi che lei sa Abele e io s'era abbastanza amici. Lo vede, io dò piuttosto nel genere peloso. 
Effettivamente, era coperto d'un vello folto e nero, muscoloso come un orso, ben piantato, tipo lottatore d'ottanta chili.
- Il genere peloso, ripeté Caino, e avevo un certo successo con le ragazze, la domenica non stavo a cercarmi i pidocchi. Il fratellino, mica era uguale.
- Abele? dissi.
- Abele. Secondo me, poi, era un fratellastro. Ho visto delle foto del serpente, un'altra matta, pure quello, beh, tale e quale sputato. Non mi sorprenderei se la vecchia avesse trafficato con quel lazzarone di verme tanto per variare i piaceri, no? Insomma, magari non era colpa sua se era come era, Abele, ma in utti i casi non ci somigliavamo per niente, lui aveva certi capelluzzi biondi biondi, da sbavarci su. Era bianco, delicatino, simpatico a tutti, e tanfava profumo, la vacca, da far svenire una puzzola. Quand'eravamo ragazzi, pazienza, si giocava a guardie e ladri, punto e basta. Dormivamo nella stesa cuccia, abitavamo nello stesso buco, mangiavamo allo stesso piatto, si stava sempre appicicati. Per me era un po' come una figlia, capisce? Lo coccolavo, gli pettinavo i capelli dorati, ci facevamo un sacco di gentilezze l'un l'altro. Devo confessarle, proseguì Caino dopo aver represso un rigurgito di disgusto, devo confessarle che quel maiale c'è rimasto male, il giorno che mi son messo a correre dietro alle femmine. Ma di aprire la bocca, non osava. Io mi dicevo che bisognava dargli il tempo d'imparare, e dopo essermi offerto un paio di volte di rimediargli un'amica, quando ho visto che la cosa non lo interessava, ho lasciato perdere. Era meno sviluppato di me.
- Già, approvai, lo hanno rilevato tutti, è questo, appunto che le si rimprovera: lei era tre volte più forte di suo fratello.
- Mi si rimprovera! esplose Caino. ma era una checca fetenta quel merdosetto!
- Si calmi, dissi.
- D'accordo. Stia a sentire. Ogni tanto gli dicevo, Abele, ho un movimento, smamma, mi serve il letto. Lui se ne andava e tornava due ore dopo. Sa, lo facevo lasera, non volevo che in paese si chiacchierasse. Insomma, lui spariva e quando la pupa lo vedeva uscire dalla baracca, entrava lei al posto suo. La notte, né visto né conosciuto.
- Era un po' una rottura per lui, concessi.
- Ma via! protestò Caino. Ero pronto a fare altrettanto! E si mise a sacramentare. - Che razza di poco! concluse. Una sera, gli faccio "Abele, datti, aspetto una". Lui smamma, io aspetto. Arriva la pischella. Io non mi muovo. Lei viene lì, si mette a smaneggiarmi non può immaginare. Io mi stupisco perché la tipa era piuttosto il genere bamba. Allora accendo il candelabro e chi ti vedo? Quell'immndizia di mio fratello. Ah, ero cattivo, io!
- Bisognava rompergli il muso.
- È quel che ho fatto. Lei sa po com'è andata. Avrò magari esagerato ma che vuoe che le dica, io, le matte, proprio non le reggo.

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